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Posts Tagged ‘Geografio’

Mia madre e la Szymborska saranno pessime vicine di casa, troppo simili, troppo difformi. La tranquilla saggezza dell’una irriterà il caos veggente dell’altra,  e viceversa: si contenderanno comete, maggiolini, gambi di sedano. Ciascuna coverà risentimenti, e stenderà i panni come fosse una guerra, una piccola guerra di posizione: la calabrese furente, la polacca senza limiti. Vicine di casa sui balconi e tra i paesaggi un po’ sfocati dell’eterno (“Tutto qui?” avrà pensato Wislawa disfacendo i bagagli – pugni di sale, inchiostri, istantanee di nulla, ombrelli smarriti,  mezzi biscotti, catene di pi greco – e poi: “L’avevo detto, io, dove c’è il Tutto c’è l’inganno del nulla, dietro l’angolo”).
S’ignoreranno, per un po’, incuriosite e stizzite da quella convivenza stretta: i cieli sono angusti, e sempre più affollati, e quando sei anziana i mezzi pubblici sono difficili da raggiungere. Dovranno condividere tramonti opachi, albe a casaccio (li mettono su per non disorientare i morti, ma l’Ufficio Meteorologia per lo più studia sui quadri impressionisti, mentre sarebbe assai meglio una copia qualsiasi di “Oggi fotografo io”), tazze di zucchero, torrenti, mattine di Natale (in cielo è Natale ogni due settimane, per decreto).
Eppure, le piccole cose correranno spontaneamente nelle loro mani, i piccoli animali, gli scarti della creazione – papere a tre zampe, meduse volanti, alligatori vegetariani, panda microscopici, cugini con sei dita – si rivolgeranno a loro.
Dalle loro cucine all’unisono si leveranno profumi che raccontano ogni cosa: cucinare è come scrivere, è chimica dell’anima. Mia madre aggiungerà più peperoncino, Wislawa spezie che non so pronunciare. Tutte e due il loro ingrediente segreto, comune.
La Vita passerà a prendere una tazza di caffé, la Morte le guarderà dal bordo del prato, agitando la mano: risponderanno al saluto senza nemmeno pensarci. Non c’è vita, dopotutto, che almeno per un attimo non sia immortale, e loro due – mia madre e Wislawa – ne sono la prova persino adesso, così distanti e perpetue, così ineffabilmente presenti, scritte, ricordate, intrecciate al nostro telaio d’aquilone, al nostro incannucciato di carne, pensiero, frattaglie.
Saranno buone vicine, dopo un poco: scopriranno che entrambe parlavano con dio, e lui rispondeva allargando le braccia. Scopriranno che tutte e due sapevano recidere i fiori con un solo sguardo, e si guardavano bene dal farlo.
Mia madre racconterà di quando incontrò il soldato tedesco morto nel fosso, gli occhi celesti pieni d’acqua e di sorpresa – lo stupore dei morti, la meraviglia dei morti, l’incredulità dei morti: “i più zelanti ci fissano fiduciosi negli occhi/perché secondo i loro calcoli vi troveranno la perfezione”– e si sentì su quell’orlo, sul quel bilico in cui stai per comprendere la legge del Tutto e del Nulla, il loro invisibile equilibrio che passa per il tuo centro, qui nel petto, dove pulsa la stessa parola, come nelle tempie e nei polsi: sì sì sì sì. Le parlerà dell’identica sensazione davanti allo Stretto, che lei, solo lei sapeva suscitare, ogni mattina, appena prima dell’alba, dal terrazzo.
Wislawa le descriverà la coerenza d’una cipolla, anche una sola, con un solo gesto allineerà nel giardino un osso di dinosauro e un cappuccio di penna bic, le parlerà diffusamente di bosco misto, lavorìo di talpa e vento.
Tutte e due beffate e tradite dalla vita che, sotto forma di altra vita, era cresciuta loro dentro, inestirpabile e, parliamoci chiaro, nemmeno chiaramente distinguibile da loro stesse, e quasi impercettibile tra tutti quei bulbi, baccelli, antenne, pinne, trachee, piumaggi nuziali e pelame invernale del mondo dei viventi.
Tutte e due ricompensate dalla vita – qualunque cosa fosse, e nemmeno loro lo sapevano, che pure l’interrogavano ogni sera – perché ci sono mani che ancora le amano, che pensano a loro nella forma religiosa delle parole allineate una dopo l’altra, che parlano di loro nel modo pensante delle mani, che le tengono in gioco nel pianeta in preda ai suoi sussulti e contorcimenti e ingorghi.
Ne avranno di tempo, per conversare e dirsi d’accordo, ma tacitamente, da buone vicine che s’apprezzano ma pure si disapprovano: “Com’è esagerata” penserà Wislawa, perché non conosce, non ancora, la parola calabrese “tragediatura”; “Com’è
affilata” penserà mia madre, patendo un poco lo sguardo della polacca, che non tollera veli: lei che non credeva nella poesia dovrà ricredersi, e le costerà moltissimo. Wislawa si sentirà rassicurata: mia madre non ha mai scritto una poesia in vita sua. “In molte famiglie nessuno scrive poesie… a volte la poesia scende a cascate per generazioni, creando gorghi pericolosi nel mutuo sentire”.
Due donne orgogliose, enormi, persino imbarazzanti per dio, che fingerà di passare per caso da lì solo per dare un’occhiata, e sentirsi sempre un po’ sorpreso, vedendo dove possono arrivare, queste mortali dalla testa dura e il cuore avido, così immerse nei grandi numeri senza perdere il vizio della singolarità.
Guardandolo che si gratta la barba le due donne si daranno di gomito e alzeranno la tazza in un brindisi. In silenzio. Perché persino l’eternità, per quanto lunga, sarà sempre breve. Troppo breve per aggiungere alcunché.

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luna vera

  Che io ci credo, ai segni. Tutti. Figuratevi una luna rossa che ruzzola, immensa, nel cielo del dopo-referendum. Mi ero detta: bene, un altro festeggiamento. La passione sale fino al cielo e tinge pure la luna, la scettica, mutevole, irresponsabile luna.
 Carica dei miei simboli civili – segni, tutti segni: siamo vocabolari a cielo aperto, ma con le pagine mischiate e di una lingua sconosciuta – me ne sono andata in terrazza, a brindare. Avevo il tricolore garibaldino, l'adesivo senonoraquando con l'aquilone, la spilletta antinucleare. Avevo vent'anni da recuperare, alle scuole serali della giovinezza sfumata; vent'anni di attenta osservazione dell'ombelico, di m'ama-non m'ama (non m'amava quasi mai), di case concentriche (che sono altre forme d'ombelico), di ripiegamenti che sono le sconfitte di chi pareggia. Avevo quattro sì e ventisette milioni di matite copiative che tintinnavano in tasca come un gruzzolo nuovo, avevo un sindaco che a Milano aveva stretto venticinquemila mani senza smettere di sorridere. Avevo un numero imprecisato di amici conosciuti negli ultimi mesi, negli affannosi corsi di recupero in Manutenzione Democrazia, Gestione Risorse Civili, Agraria Costituzionale e persino Storia del Risorgimento A Venire: universitari sui tetti, precari nelle piazze (la peggiore Italia: quella che fa vergognare tutta l'altra mezza solo mostrando la faccia), giovani settantenni animatori della resistenza online, terroristi della gentilezza, kamikaze dell'ironia (si fanno esplodere in risate per tutti i socialnetwork e i blog, lo giuro: attorno a loro piovono le vittime: governanti, gerontocrati quarantenni, analfabeti telematici, nani e olgettine).
  Lo sapevo, erano tutti come me in quel momento, naso all'aria, a vedere pure questa: Santoro e Crozza e la Bindi a tingere col ducotone rosso la luna.
 Ho versato nel bicchiere il vino (rosso), e aspettato. Ma la luna non compariva. Che m'è venuto il sospetto che fosse come in Ecce Bombo (gli dei l'abbiano in gloria): l'aspettavamo da qui, la luna rossa, ed è spuntata dall'altra parte. Come l'alba, l'amore o la rivoluzione (in rigoroso ordine d'utopia).
No, eccola.
Piccola, dura, refrattaria. Camminava precisa nel cielo dello Stretto che era stato tutto il giorno fosco ma sgombro, del colore azzurro cinerino dello scirocco. Alle nove e mezza di sera – ed è un'ingiustizia – il Sud è buio come a mezzanotte, per la solita beffa palindroma della luce.
La luna, di taglia piccola, di bordo tagliente, saliva lungo la curva invisibile del cielo. Invasa come da un fumo scuro, come da un malumore. Mentre lei cambiava di colore, arancio-nero-violetto-porpora-grigio-sanguigno, io sono rimasta pietrificata, di pietra lunare, di pietra di catania, di pietra di sale.

  Ci sono segni che non si possono scomodare, altroché.
M'è presa una paura sicuramente antichissima, mentre lei si faceva così scura da scomparire. Sentivo i cani del quadrivio, le gatte pazze che si muovevano nervose. Sentivo il silenzio agitato, invaso dal fermento sobillatore dei tigli, dalla salsedine che sale ai piani alti, con la tristezza già estiva del mare di notte. Sapevo cose di raccolti rovinati, di controincantesimi, di fratindovini, di sortilegi distesi nella campagna.
  Non era una luna di vittoria: era la luna temibile dalle labbra chiuse, dagli occhi sigillati, dal latte rappreso. La luna remota dell'inizio dei tempi, quando sulla cima angusta della terra stavamo a guardarla pieni di terrore, sprofondati nel buio per sempre.
Mi dolevano tutti i dolori (i miei nel cimitero che guarda la montagna, il vasto coro degli assenti, le cicatrici degli errori, le occasioni mancate, gli oblii e i peggiori di tutti, i ricordi). Il futuro s'era cancellato, e non avremmo avuto che la notte, e il nostro proprio cuore da mangiare.

 

Ma è stato a quel punto che la luce è riapparsa, come un punto acuminato che feriva gli occhi. Dalla coda della luna – che è una sirena rotonda – ha cominciato a crescere. Lenta, veloce, calmissima, equatoriale. Spingeva la linea d'ombra liberando striscia a striscia la superficie di sasso della luna, che era d'osso bianco e sabbia di clessidra.
Il rosso si dileguava come il nero, come la paura.
Allora ho capito: era quello il segno, e il messaggio. Quella luce caparbia che spingeva con centomila mani l'ombra, per quanto potesse essere nera, per quanto potesse essere forte, e antica, e invincibile. Quella luce che splendeva per tutto il cielo, restituendo il futuro palmo a palmo.
C'eravamo tutti: io, le zie, Garibaldi, i tigli impetuosi che si muovono in branco per le notti. I “noi” ritrovati (il mio mi entrava alla perfezione, come se non fossi ingrassata d'un chilo), le bandiere. I figli – tutti i figli, che i figli non sono mai di due soltanto – il vino, le gatte, persino il mare.
La luna s'era quasi liberata tutta, quando ho brindato a lei con la marea del bicchiere, che la percepiva e s'impennava. Come una speranza.

 

Dedicato a tutte le lune rosse che inseguiamo, salvo poi aver paura del buio, come al solito.

 

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Tutti i retroscena della tournée di Brioscia che, come i Pooh, ha cominciato un tour – il Miciazze Fab Tour 2010 – per presentare la sua creatura, che nasce, si sa, svantaggiata: nascere libro nell'Italia di Bondi è come nascere neri nell'Alabama del 1930, come nascere contadini nella Russia del 1830, come nascere calabresi, o donne, in un secolo a piacere.
Ma noi ci segnaliamo per sprezzo del pericolo e incoscienza recidivante (e poi qui occorre distrarsi dopo la prestazione da black block del Parlamento senza vergogna di ieri).
In ordine cosparso (il mio preferito):

 

Il corteo con striscione

Esistono vari tipi di corteo: quello da casa, il più comodo, tutto in streaming, youtube e status di fb; quello semplice; quello con bandiera; quello con striscione. La vostra Brioscia ha scelto il più difficile: quello con bandiera e striscione.
La bandiera era quella dell'Unità – dal momento che la gloriosa “No Ponte” era stata dimenticata con tutta una serie di cose indispensabili (mutanda a banda larga, fondotinta color Carlo Conti, amuleto animista-calabro-pagano, santino del Che e di padre Pio) – rossa il giusto, e soprattutto diversa, nella spaventosa infestazione di bandiere del Pd che risalivano la piazza e le vie come una micosi biancorossoverde.
Lo striscione era quello, eterocromatico, di ArciEtero, associazione – appunto – di eterogenei a difesa degli omosessuali: un caso di ospitalità da corteo dovuto allo sconfinato, pericoloso senso dell'accoglienza di Francesca Fornario, di cui si dirà più oltre.
Ma la Brioscia ha scoperto – dopo quasi quattro ore di piazza, una ricerca affannosa di bandiera alternativa (cessata solo dopo aver commosso, con argomenti inverecondi, un venditore ambulante di “Unità”), uno scavalcamento coatto di transenna, vari cali glicemici, vuoti di memoria sulle playlist della sinistra (tenere a mente: Jovanotti è di sinistra, Daniele Silvestri è di sinistra, Lady Gaga è di sinistra), un tentativo di tarantella su un rap campano-pugliese con principi di infarto del miocardio e rottura rotulea – di non averci proprio il fisico, per l'opposizione. Opterà per il Pd, allora.

 

La shining

La shining è, con tutta evidenza, la femmina dello shining.
La shining si manifesta in situazioni estreme, quando nell'urgere degli accadimenti senti una luccicanza, però femmina. Nel senso che ti dici: questa potrebbe essere, anzi è una sorella. Mi è successa molte volte, in questi giorni. E quasi senza interruzione dentro il corteo, che era a sua volta dentro la Capitale, che era dentro un sole da Liberazione, che era dentro una speranza grande così.

 

La casa di Francesca Foster

La casa di Francesca è di centosei stanze, tutte piene di disegni, fumetti, personaggi dei fumetti parzialmente vivi che ti guardano quando ti volti ma tu non li becchi mai. A casa di Francesca si mangiano peperoncini raggiati, clementine soavi, cassate, torroni, ciambelle delle cuoche del paradiso, molto kamut, gnocchi dell'alleanza, tisane di resistenza umana.
La casa di Francesca è aperta a tutti gli amici immaginari, come casa Foster: infatti nel corridoio ho incontrato Blu che inseguiva scarabocchi, ed Edoardo che raccoglieva margheritine dipinte sul muro.
Francesca mi ha adottata, e anche io adesso vivo lì, in qualche modo.

 

Hal e Simone

Simone parla spesso con Hal, o Hal parla con Simone. Si dicono cose che solo loro sanno. Simone mette l'auricolare, e fa una domanda, e Hal risponde ripetendo sempre la domanda, come se fosse inglese, o Gasparri.
Poi Simone tocca lo schermo, e Hal ride perché gli fa il solletico.
Si vogliono bene.


Roma

Roma occasionalmente diventava d'oro puro. Con tutto il suo marmo, i suoi traslocatori, i suoi sampietrini larghi, i suoi happyhour, i suoi deputati (agh). Con tutti i suoi scontrini, i suoi gestori di bar, i suoi tassisti. Con tutto il suo Tevere color birra scura, e i suoi ultratevere, e la sua pietra rosa che appare solo fuggevolmente al crepuscolo e poi si trasforma in altro, ferro cenere o carne.
Con tutti i suoi retrobottega, i suoi panini col pomodoro troppo verde, i suoi gioielli di Cornelia, i suoi androni che sanno di broccoli, le sue idi di marzo.
E chi la finisce mai, Roma.

 

Enrico Ghezzi e le scarpe a pois

Sarà stata l'ansia da prestazione, sarà stato il digiuno coatto, la perdita di sonno, la Salerno-Reggio che ormai non è un'autostrada, è un'ordalia. Sarà stata la sindrome da Pelle d'asino, o da Cenerentola, o da Paperino. Ma Brioscia si sentiva leggermente fuori sincrono, quella mattina a Più liberi più libri: tale e quale a un Enrico Ghezzi che parla di Buñuel e spinterogeni. Come se la realtà si fosse spostata di una quindicina di centimetri. A destra.
Meno male che c'era Fiamma, la sempiterna Fiamma Lolli, che fece uno show straordinario, come un acquazzone di violaciocche, come una tempesta tropicale di fragole e sale grosso, come un tornado di confetti al liquore, come un'aurora boreale alla cannella, facendomi vergognare: il mio libro non era certamente all'altezza della sua performance. E per giunta senza orecchini (lei, non il libro)(ma si rifece la sera, Fiamma, con calendari maya pendenti che le arrivavano alle spalle, con tutte le profezie).
Meno male che c'erano tutti i miei avatar preferiti, che quasi voleva andarmene in giro e cliccare “mi piace, mi piace, mi piace” e forse l'ho pure fatto prima che l'editore m'immobilizzasse dietro una scrivania gelminica da cui spuntavano solo le teste, come in certi banchetti del lunapark (tre palle due euro) o in certe commissioni d'esame: “Vediamo, Mallamo, se ha studiato”. No che non ho studiato.
Davanti a me, sembrava l'home page di fb un lunedì mattina, ma più bella.
Accanto a me, in moto ondoso, Fiamma diceva cose spettacolari, parlava di compassione e letteratura, e di manuali di pesca e di caccia alle balene, e di colpo eravamo tutti a fiocinare Moby Dick, che passava al largo dei marmi dell'Eur con la coda di travertino.
Sopra di me, la telecamera di Antonio Allegri registrava scene da film. La Corazzata Potemkin, o forse Fantozzi – Il ritorno (dovrò fargli causa, quando tutto questo sarà su YouTube, lo so). Più su, gli dei, beffardi. Più su ancora, nell'iperuranio, le zie che spargevano sale e facevano scongiuri.
Dentro di me, la legge morale.
Sotto di me, le scarpe a pois. Almeno loro sapevano tutto.

 

 

Il giorno degli avatar spezzati

Quando li hanno trovati, non sapevano proprio cosa fossero. Li hanno ramazzati e chiusi nei sacchi, ma poi non sapevano nemmeno se buttarli nell'umido o nell'indifferenziato inorganico.
Sembravano fiori, ma anche gusci d'uovo, ma anche pietra calcarea, ma anche un qualche corallo. Sembravano baccelli, ma anche scatole cinesi, ma anche frammenti d'alveare, ma anche pelle di serpente. Sembravano porcellana, ma anche miele, ma anche foglie di felce, selci scheggiate, bottoni della nonna.
Erano avatar.
Li abbiamo spezzati con un gesto solo, di solito un abbraccio: Romana, Assunta, Eva, Angela, Lorenza, Chiara, Luca, Antonio, Nuvola, David, FrancescaRomana, Johnny (con bellissima figlia). E poi Naima ed Emanuela.
Che meraviglia, riconoscerci veri. E quanto siete dannatamente belli, da veri. Quanto siete imperdibili.
Mi piace mi piace mi piace mi…

(con Raffaele, Enzo, Giacomo, Monica, Ivan, Mariantonietta, Gaja, Enrico lo avevamo già fatto, il prendete e spezzatene tutti, e dunque è stato un normale ricongiungimento parentale).

 

Il bucatino ultracorpo

 

Non è un pranzo. E' un rapimento alieno. Un sequestro, un incontro ravvicinato. Tu entri là sotto, in una trattoria annidata nella Roma porosa e millenaria degli osti, di tovaglie di carta e avambracci e una lista scritta a penna. E lì, dalla lista, avremmo dovuto capirlo, stupidi che non siamo altro: c'era scritto “mezza porzione”. E l'abbiamo preso, invece, per un souvenir linguistico, un vezzo da filologi: oltre alle mezze stagioni, si sa che da un sacco di tempo non esistono più da nessuna parte le mezze porzioni. E invece.
La cameriera ci faceva gesti disperati, ma noi, persi nella crisi ipoglicemica delle tre del pomeriggio, dopo le obiettive difficoltà di tenere assieme una comitiva eterogenea dentro una Roma festiva, piovosa e furiosamente prandiale – che è come portare un circo a Gerusalemme, o il Pd al governo – non ce ne siamo accorti. E abbiamo ordinato. Porzioni intere.
Non tutti siamo ancora qui a raccontarlo.

 

Le luci sopra Salerno

Non so com'è Salerno, di sotto, ma di sopra sì. Almeno a Natale. Di sopra, diciamo dalla vita in su. Perché forse Salerno è come le sirene: mezza asfalto e mezza firmamento. Mezza zolfo e mezza limone. Così tralci di brina gocciolavano luce accanto a reti dorate, renne, pianeti. Asteroidi d'argento sopra i segnali arrugginiti, stelle galleggianti fino ai primi piani dei palazzi gialli.

 

Le luci sotto Salerno

Il tango, si sa, è una congrega clandestina. Ci raccogliamo come adepti, senza bisogno di dire nulla, cogli abiti rituali, le formule degl'incantesimi lungamente studiate. E da quei cerchi scuri che sono le milonghe si sprigionano luci, fuochi fatui, ardenze. Succede ogni volta, ma qualche volta di più.
A Salerno eravamo sul mare impietoso che sapeva di zolfo, e smaniava dietro i vetri. Dentro, fiorivano i limoni, e una specie di giugno teneva la ronda stretta stretta (musicalizzava un ragazzo giovanissimo, che prendeva il tango dal lato della forza, dell'energia ondosa del suo tremendo potere di lontananza e nostalgia).
Ne ho avuto sorrisi e rose, e magnifiche tande. Da fuori, si vedevano le stesse luci scure d'un acquario,o dello Stretto.

 

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sì, siamo in un circo. nella parte delle bistecche lanciate alle tigri

Se dovessi acclarare che la Costituzione è stata sostituita nottetempo col regolamento del Monopoli;
se dovessi acclarare che – dopo le ministre Simpatia, Modella Domani, Cinema ed Eleganza – la nuova moda sono i ministri ventiquattrore, i ministri-lampo, e forse in futuro avremo pure i ministri retroattivi, o i ministri usa-e-getta che sono pure più ecologici;
se dovessi acclarare che le intercettazioni ledono la privacy di onesti cittadini che si sono fatti una posizione lavorando duramente dai gradini più bassi della (Onorata) società, fino da quand'erano picciotti;
se dovessi acclarare che la 'ndrangheta si è padanizzata, parla con lo sciusciù milanès, compra condomìni e sta preparando un suo padiglione all'Expo, sezione imprese italiane nel mondo, e magari vota pure per la Lega;
se dovessi acclarare che quattro sfigati pensionati, ormai annoiati dal tressette, avevano deciso di fondare la P3 solo per svagarsi un poco, anche perché d'estate le bocciofile chiudono;
se dovessi acclarare che la cricca sta approntando la sua manovra economica, con tanto di piani di edilizia, grandi opere anzi grandissime, ecoballe, ecomostri, cenette e cotillons;
se dovessi acclarare che per costruire un grattacielo nella Valle dei Templi occorre solo una ricevuta firmata dal portiere;
se dovessi acclarare che andremo tutti in pensione a novant'anni compiuti, direttamente dalla cassa integrazione senza passare dal via;
se dovessi acclarare tutto questo, io penso che resterei sconvolta. Ma poi mi dico che no, non è possibile che sia accaduto a mia insaputa, e senza saperne io il motivo, il tornaconto e l'interesse.
Mi dico che è fantascientifico almeno quanto il 2012, la laurea del figlio di Bossi o il Ponte sullo Stretto. Mi dico che simili cose non possono succedere, in un Paese appena appena normale. Vero? Vero? Vero?

Pezzullo uscito oggi sull'Unità, ma in gestazione mentale da un po'. In effetti, mancano un sacco di altri "se dovessi acclarare" (non sapete per una calabrese farcitrice come me quanto è difficile contenersi nello spazio di milleottocento battute: il mio horror vacui ha orrore), non tutti così politici.
Chessò: se dovessi acclarare che ho passato più di metà della mia vita a occuparmi di quisquilie, mentre i miracoli si appoggiavano ai nostri lampioni;
se dovessi acclarare che tutti i miei sforzi per essere migliore di mia madre, o anche solo diversa (e questo parallelismo tra diversa e migliore dice già tutto quello che io non posso dire, o verrei immediatamente incenerita dai caschi blu del Super Io);
se dovessi acclarare che la mia militanza nel partito del bello e del giusto è solo illusoria, transitoria, fallace e probabilmente fallimentare;
se dovessi acclarare che la parte migliore di me è già trascorsa;
se dovessi acclarare che le cose di cui ho più paura sono tremendamente vere;
se dovessi acclarare che la mancanza d'amore è quasi meglio dell'eccesso d'amore, e io ho rischiato di non sopravvivere a entrambi;
se dovessi acclarare che l'illusione non si può mangiare, è molto nutriente lo stesso ma io non so come fare a masticarla;
se dovessi acclarare che tutto quello in cui credo non crede per nulla in me;
se dovessi acclarare che non so come si acclara nulla, a partire da me…

continua fino all'infinito e oltre…)

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Premessa: sapete quello che penso delle catene (trattasi di catena telematica, che infuria su feisbuk come una volta, ai bei giurassici tempi, infuriava tra i blog). E di chi mi incatena. Ma siccome sono una peccatrice, col vizio della virtù e il peccato dell’innocenza, vi perdono.

Le virtù teologali

FEDE
La fede è quella di mia madre,di oro rosso con qualcosa di ardente, qualcosa di antico, qualcosa di povero e caparbio. E i nomi graffiati dentro. Ecco, la fede è quando hai un nome graffiato dentro, nel giro del cuore, e non puoi prescinderne. Sicché io ho fede nella cupola del cielo, nella persistenza di mio padre e mia madre dentro di me e qualche volta pure fuori, nella tenuta del castello d'aria e immaginazione in cui vivo e tengo i miei affetti e qualche volta le mie parole.

SPERANZA
Dev'essere quella dea gentile e sfigata che hai solo quando non la vedi svolazzare, come una falena di taglia grossa, attorno alle macerie luminose. La speranza vera è quella invisibile pure a te stesso, quando ricominci, senza nessun talento per il futuro e nemmeno per il presente, ti rialzi e vai.
Ci dev'essere una certa quantità di speranza minerale aspromontana nelle mie ossa di donna calabrese tragediatura ma vitale, che scambia la speranza con il coraggio, e tutte e due con la durata malgrado, nonostante, purtroppo.

CARITA'
A scuola, dalle suore, m'hanno insegnato quella pelosa, quella circospetta, quella che nasconde una compravendita, o una sanatoria.
Poi ho saputo che, nel fondo di quella parola, brillava la charis, la grazia luminosa di ciò che è caro e bello e desiderabile. Allora ho capito che è una forma d'amore, ed è anche più bella quand'è all'ombra. Lasciamocela.

Le virtù cardinali

PRUDENZA
Non correre. Non sporgerti. Non tuffarti da lassopra. Non aprire quella porta. Non mangiarne tanto. Non provarci. Non andarci a letto. Te lo avevo detto, io.

GIUSTIZIA
La giustizia è una malattia. Una sete, una fame chimica, un ronzìo nelle orecchie, un soprassalto di sangue. Una malanova. Quando ti prende vorresti la spada dell'arcangelo, per diventare subito ingiusto facendo giustizia.
Perché in fondo è una dea severa dalle carni gelide e dal tocco imparziale, ma qui in Calabria la veneriamo col nome di vendetta, qualche volta, che è solo la sorella gemella e focosa dagli occhi fosforescenti che ti tormentano al buio.
Io sono vendicativa e rancorosa, maneggio il cric e dentro di me la chiamo sempre Giustizia. Non so se lei si volta, quando la chiamo.

FORTEZZA
E' rocciosa e invisibile. Consiste nel prendere l'aliscafo per duemila volte di seguito e fare la strada dell'ospedale, per trovare lei lì, un poco di meno ogni volta, e inseguire quel suo modo d'andarsene, e poi uscire a cercarla e sapere che non la troverai mai più.
E’ sopportare il prima e anche il mai più.

TEMPERANZA
Ha gli occhi verdi, armoniosi, alieni. Probabilmente consiste nel fermarsi un attimo prima. Troppo presto, per quelli come me.

I vizi capitali

SUPERBIA
Li guardo con disprezzo. Arriccio il naso. Tengo la testa ben alta, e faccio un sorriso mezzo e sottile, sperando che li tagli. Anche le parole le lucido come una collezione di lamette.
Non li sopporto, i cretini.

AVARIZIA
E' un portone sempre chiuso. E' la donna che legge l'oroscopo accanto al letto dove lui rantola con gli occhi ciechi. E' la cassetta dei gioielli di famiglia sepolta viva in qualche cassaforte, cogli orecchini di granato che perdono colore e le perle che appassiscono di solitudine.
Non siamo avari da molte generazioni – a parte mio fratello e mia cognata, che contano pure i fazzolettini di carta – ma siamo l'opposto che pure è un peccato: il mi bisnonno fu l'unico a tornare dall'America più povero di prima, con una sola tazzina da caffè, ma con le mani cosparse di polvere d'oro, di tutto l'oro che ci era passato attraverso.
Abbiamo ereditato quel tocco rovinoso e in fondo felice.
La povertà può essere una forma di ricchezza, e la generosità una forma d'avidità. Siamo avidamente generosi, rapaci di prodigalità.

LUSSURIA
E’ lussuria, se voglio entrare nella sua anima passando dal suo e dal mio corpo uniti e spalancati? E’ lussuria se voglio entrare nella mia anima passando dalla sua? E’ lussuria se amo col tatto, con l’olfatto, con l’immaginazione? E’ lussuria se faccio sogni roventi, ma ero sveglia? E’ lussuria se attraverso giungle di carne e mi fermo ad ammaestrare leoni a divorarmi?
No, infatti.

INVIDIA
L’invidia con gli occhi stretti siede alla finestra e sputa veleno. Ci guarda passare, con gli ombrellini di carta, il rosso sulle labbra, i capelli sciolti, non più belli o più fortunati di lei, solo più liberi, e impreca dentro di sé. Poveretta.

GOLA
La gola non è un peccato, è una sineddoche.
Io ce le ho avute tutte da piccola, la sineddoche, la metonimia, il chiasmo e pure lo hysteron proteron. Perché di questo si tratta: ogni volta, vuoi raccontare l’universo mondo, oppure mangiarlo, incorporarlo e fartene nutrimento.
Sì, io mangio il mondo a mozzichi, con le sue allegorie e la sua cioccolata fondente, i suoi corpi e le sue matite, le sue melanzane ripiene e rivuote, i suoi anacoluti crudi con un poco d’olio e polvere di zenzero, di zanzotto, di zanzibar.

IRA
E’ il mio peccato preferito, o forse sono io la sua peccatrice preferita. L’ho ereditata da mio padre, che soffriva di collere fredde fino a che ha avuto la giovinezza che gliele temperava (a torto si crede la giovinezza una stagione di tempeste: la giovinezza è piena di timori, esitazioni e dubbi), e in vecchiaia è diventato un iracondo tropicale. L’ira confina con la giustizia, con la vendetta, con la tolleranza e l’intolleranza: invade i confini e marcia come sulla Polonia, e tu non puoi farci nulla.
L’ira mi mangia viva, certe volte, e so che ne morirò, come per un guerra civile senza vincitori e con tutti vinti.

ACCIDIA
Solo una vera pigra può guardare negli occhi l’accidia e dirle: non mi piaci. Non mi piaci.

Infine: ho sempre pensato – dal momento che nel remoto passato anche qui c'incatenammo coi peccati – che queste liste siano poco attuali. Aggiungerei un altro elenco di peccati capitali e di virtù fondamentali. Ma è un elenco aperto, che vi invito a continuare voi. (come mi ricordava Matteo Pelliti, qui gioca l'eco di remote catene. Dedico vizi e virtù allo scomparso Effe, al quale si devono alcuni dei nuovi peccati capitali qua sotto, gli dei del web l'abbiano in gloria)

PECCATI CAPITALI

Indifferenza
Intolleranza
Violenza
Sudditanza
Ipocrisia
Silenzio

VIRTU’ FONDAMENTALI

Accoglienza
Coraggio
Condivisione
Partecipazione
Linguaggio

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danza in cerchIo: la vita è una maratona, ma più corta

LA SELEÇAO – La Prima Maratona di tango (la Maratangona, che un poco fa pensare a una Mara Maionchi disegnata da Fellini) mediterronea era cominciata almeno tre mesi prima: le maratone, per loro natura, durano un sacco di tempo, e cominciano dalle alchimie della selezione. Come l’Arca di Noè, i posti in prima fila a Sanremo o le feste a Palazzo Grazioli: il segreto sta nella composizione degli invitati. Il segreto, dicevano Oscar Schindler e Umberto Eco, sta nella lista.
 E così, mentre nelle sapienti cucine dell’organizzazione si aggiustavano gli ingredienti, ammettendo gli animali tangheri a coppie, come sull’arca (“due greci, due scandinavi, un australiano, due lussemburghesi, no meglio uno, ché il Lussemburgo è piccolo e tanto non devono riprodursi, due svizzeri, due messinesi, anzi no nessuno che tanto sono fuori dal Commonwealth tanguero, sono province selvagge, hic sunt leones, come Enna Trapani Pantelleria e il Burkina Faso. Due triestini, due padovani, due olandesi, due romani, due bellunesi, due francesi, cento spagnoli, trecento lèttoni èstoni gàttoni – che Sor Pampurio le fanciulle dell’Est le vuole a cento a cento, come Gheddafi, nelle sue tande. Due cinesi, per i rapporti cordiali con l’Oriente, un peruviano, un filippino. Due argentini porteñi dop, che eventualmente si può chiedere l’autografo e toccare le vesti, e forse pure esporli in una gabbia dorata al centro della milonga, e tirargli da mangiare ma poco che poi stanno male. Uff, la legge sulle minoranze etniche e le quote rosa: un paio di catanesi, qualche palermitano, pochi per carità, addirittura una calabrese. Etruschi no, non ce ne sono, gli esquimesi fanno i difficili e da Atlantide non si sono fatti vivi, accidenti a loro”), altrove fervevano i preparativi.
  Totò (farolit) e Peppino (io) progettavano il lungo viaggio che li avrebbe portati nel cuore di Palermo: ventotto ore a dorso di mulo, oppure ventisei sulla littorina, vestiti da milanesi, circondati da bauli e cappelliere dove, per sicurezza, avevano messo trentotto paia di scarpe da tango, sedici chili di pasta, quattro galline e dodici capocolli. Pronti a scendere, fermare una guardia e chiedere: Noio vulevon savuàr l’indriss de la milongh… Scusi, ma per tangare dove dobbiamo tangare, per dove dobbiamo tangare?

 Alla mitica milonga dei Candelai – dentro la Palermo porosa e barocca, sia pure infestata dai pub dove si mescolano meusa e house music (diciamo house meusa) – non chiesero loro nemmeno il passaporto (che Totò e Peppino s’erano preparati, in quei mesi, sentendo raccontare di immensi campi col filo spinato in cui si veniva divisi, e veniva tatuato un numero sul braccio, e qualcuna veniva condotta in un luogo orribile, lo chiamavano “panchina”, dove sarebbe stata costretta a restare per ore e ore… ), anzi annodarono loro un nastrino di velo al polso, consegnarono cioccolata modicana benedetta e li spinsero oltre i tendaggi di velluto.

LA MILONGA – Ora lo sappiamo tutti: la milonga non è un luogo, o almeno non è un luogo spontaneo. E’ piuttosto un accadimento (un accadimento terapeutico, diciamo). Un luogo deve costituirsi in milonga, deve coagularsi e assumere la sua orbita circolare, come un giovane pianeta. Ma ci sono luoghi più luoghi di altri: i Candelai è uno di questi.
 Ex mobilificio, ex bordello: il tango ama i luoghi antichi e stratificati, nutre le sue radici profonde attraverso gli strati saporiti di storie, vite, macerie e gioielli sepolti. I Candelai è un luogo irregolare, fitto, separato. Le sue tende di velluto chiudono fuori il tempo, i suoi mobili spaiati, accostati per caso e dissonanza, riflettono il meticciato prodigioso e creativo del tango. La sua fisionomia stravagante – la balaustra, le scale, i pilastri, le nicchie – disegna una geografia immediatamente congeniale, subito saturata dal tango, dalla musica (bellissima: i sette musicalizadores, un numero giustamente magico) che arrivava a inzuppare ogni angolo libero, dai passi che formicolavano dappertutto, anche tra la gente seduta – perché gli sguardi, in milonga, ballano come i piedi.

 Totò e Peppino, malgrado le gelide sciangazze (do you know sciangazza?) che talora tagliavano l’aria secondo l’incomprensibile meteorologia della milonga (l’equatore è polare, i tropici si toccano e si inseguono, come le schiene dei ballerini, che non devono incontrarsi mai ma inseguirsi sempre), fecero un “ooohhhh” di meraviglia. Qualche metro più in là, appoggiato ai parapetti fluo da cui s’affacciavano i maratoneti – le donne come al balcone a far calare la treccia – un maravigghiato da milonga stava a bocca aperta, come davanti al presepe.

 E ce n’era ben donde, anzi d’onda. Un’onda buena inarrestabile. In effetti, la Maratona è un mare, un piccolo oceano che non si ferma mai. Lo dicevamo tutti, entrando a qualsiasi ora del giorno o della notte: “Qui non è cambiato niente”. Perché il tempo, nella maratona, si ferma fuori dalle tende, fuori dal cerchio. E’ il resto del mondo, a scorrere oltre (e infatti Totò e Peppino uscirono che erano trascorsi trent’anni, Berlusconi era sempre presidente del Consiglio, arconte e pontefice massimo, Lombardo preparava un nuovo partito, si dovevano aprire i cantieri per il Ponte sullo Stretto e Pippo Baudo stava per presentare Sanremo).

DONNE, UOMINI E SARCHIAPONI – Ma dentro il cerchio, ah dentro il cerchio.
Le donne erano bellissime. Per lo più trentenni alabastrine dai polsi sottili e il fondoschiena orgoglioso, purtroppo talora deturpate dalla maligna moda del pantalone-pannolone (per tacer del tanguero in pannolone gigante, e pure arancione, che faceva venir voglia d’organizzare una colletta per comprargli un gessato di seconda mano). Ma la minoranza etnica anziana e strassata faceva la sua figura.
E maschi d’ogni tipologia: nordici illimitati, latini tascabili, pelati in odor di Famiglia Addams (zio Ocho, diciamo), lungocriniti, veroniani e varoniani. Cravatte espressioniste e pantaloni hiphop, giacche a tre bottoni e magliette della salute. Un maglione norvegese (la proprietaria, fanciullona bionda con seni e chiome da valchiria, si lamentava del freddo di Palermo: le vostre case sono fredde. I loro pinguini non potrebbero viverci).
E ogni tipo di tango: per lo più, almeno nel primo giorno (ma il tempo della maratona non è misurabile con strumenti umani: un giorno può durare duecento tande, ottocento ore di panchina, cinque minuti di conversazione, un sonno agitato sul sofà bassoimpero), un salon nevrotico con inquietudini nueviste, poi assestatosi in un salon moderato, mentre negli angoli fiorivano le enclave milonguere.
 Pochi, stupendi sgomitatori – vogatori mancati, un “due con” che percorreva la milonga come una piscina. E poi esteti da bordopista, compositori di haiku tangueri (uno per tutti: “Mancata una parada
                                                al suo piede sinistro.
                                                S’è fermata lo stesso”), vecchi navigatori di milonga, replicatori di tande, prestatori d’opera (“ma balli da ore, come fai?” “salto le milonghe” “ah”), ballerine assertive (“giuro che l’ho sentito: lei m’ha marcato un mezzo giro a sinistra” “E tu?” “E io l’ho fatto”), arcangeli Rubieli, maravigghiati di Candelai.

SOR PAMPURIO L’IMMANCABILE – E poi lui, Sor Pampurio (per chi non lo sapesse, qui cominciò la sua epopea):

Sor Pampurio è arcicontento del suo nuovo appuntamento
ché Palermo l’incorona duca della Maratona
Fa la lista degli ammessi, dei salvati e sottomessi
E poi regna tra i divani stretto fra i suoi pretoriani
Balla sì con degnazione, con la lettone o l’estone
Guata le altre con disprezzo: io qui sono il meglio pezzo…
Tu fanciulla fortunata, zitta e segui, o sei bannata…

E la milonga che, imperturbabile, percorreva la sua orbita ferma nel tempo, con la musica e le tende e le tande, e una sensazione come di tango infinito. C’era pure una tisana – lassù nel buffet dove si mescolavano gambi di sedano e mandarini, biscotti di mandorla e pomodoro, proprio come il tango là sotto – “per un tango infinito”. Chi l’ha bevuta dovrà tornare, come la melagrana dell’Ade.

ps: è stato molto bello, e io non sono ancora tornata del tutto. Un pezzetto è ancora alla maratona, e chissà quanto ci metterà, ad uscire.

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nel bosco dei libri-albero

Libri. Libri librati in volo nelle voliere appese al muro, libri rampicanti che fioriscono fuori stagione, libri animati che scodinzolano sul comodino, sotto il letto, sul tavolino. Libri che pigolano, che urlano appena li apri, che sgocciolano tutta la notte e non ti lasciano dormire e a volte infiltrano il pavimento e la vicina del piano di sotto chiama: "Signora, c’è Tolstoj nel mio tinello, vuole riprenderselo, che mi dorme sul divano e spiegazza i cuscini?", oppure Von Clausewitz che gioca coi soldatini del bambino. O Gabo in cucina che litiga con Donna Flor sulla quantità di sale del risotto e dell’amore.
  E poi i libri che sono solo interiori: i diari di mio padre e mia madre, i miei diari scomparsi, i diari di mia nonna analfabeta, tutti telepatici e genetici (ci troviamo scritti i lobi sottili, le ossa sensitive, la schiena diritta, il gusto per il sapore dell’acqua e delle parole, una certa forma del naso e dei pensieri, la testa calda, i piedi freddi, il sangue salato, una vertigine all’attaccatura dei capelli e del cuore, il presentimento delle comete).
 I carteggi di lettere non scritte e non spedite oppure mai aperte, dove l’inchiostro continua a sobollire piano, come catrame.
 I manuali per costruire barche, arche, scaffali e relazioni. Il Grande libro dei nodi (il mio preferito è la gassa d’amante, ma non saprò mai riprodurlo, con nessuno e con niente).
 E i vocabolari. Libri bulimici che vogliono tutte le parole ma non le sanno usare, le mettono in fila come non saranno mai, né dentro né fuori. Vocabolari dove lettere come la x, la y, la k cambiano di posto ogni volta che li apri (sono incognite, come d’altronde tutte le lettere dell’alfabeto, ma loro di più).
 E poi ci sono i libri che sono usciti, e sono diventati stanze, terrazze, case, città, pianeti.
Nella mia casa ci sono camere sudamericane, camere dello scirocco e camere della tortura. Un patio con gardenie immortali, da cui s’intravvede un sanatorio ottocentesco, una fabbrica abbandonata, alcuni mari, due vulcani, montagne incantate, stazioni dove nelle notti d’inverno s’aggirano viaggiatori, città del tutto invisibili.
 E i libri che ho immaginato, e per oscure ragioni sono diventati veri, o viceversa: libri che ho letto talmente tanto da farli diventare totalmente immaginari. Come la cena di Trimalcione, le ricette di zia Enza, il taccuino di Carmosina, le botteghe color cannella. Le cronache marziane le scrissi quando ero giovane, ora forse vorrei immaginare Declino e caduta dell’Impero romano, oppure il Ciclo della fondazione.
 Ho amato una quantità di uomini e donne, sotto i più vari travestimenti: alcuni li ospito ancora a casa mia. Il Che che non riesce ad allacciarsi gli anfibi, perché ha troppa fretta di vivere. Frida che cammina sbilenca e disegna sui muri con lo smalto rosso o col sangue. Ino Moxo che cerca la terza metà, o i ponchos ricamati dalla vecchia Ana, cieca e veggente nella migliore tradizione (qualche volta confabula con Edipo, e non so mai se li interessi sapere come è stato che hanno visto, o come è stato che non hanno visto).
  E qualche volta i libri sbocciano in forma di rosa. Stat rosa pristina nomen.
Il balcone olezza di rose al gelsomino, rose al tiglio, rose al peperoncino, rose all’avverbio di modo, rose al carbone bagnato, rose al bandoneon. E i nomi si affollano, e noi li cogliamo per metterli nei vasi, o nei libri, libri che parlano di rose…

 E’ che nella mia altra vita in rete (nessuna delle centoquindici reali) si parla di libri, si compilano liste di libri, ci si scambia catene immateriali di libri che poi ti si affollano attorno e non vedi più niente, solo pagine aperte come ali, e confondi la realtà coi libri, o viceversa, ma forse è sempre così: se non avessimo i libri attraverso cui filtrarla, la realtà sarebbe senza rose e senza pepe, o viceversa, se non avessimo terra da metterci, i libri si alzerebbero in volo, e potremmo solo contemplarli da lontano, schermandoci gli occhi con la mano.

In effetti, mi si è chiesta la fatidica lista. I 25 libri della mia vita. Ma che, scherziamo? (comunque la aggiungerò presto)

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i confini che disegnano invisibili prigioni
Mi sembra che sia urgente ricordare a noi stessi quale sia il confine dell’inaccettabile, dal momento che c’è chi quel confine, millimetro per millimetro, lo sposta ogni giorno un po’ più in là.

IO NON ACCETTO

– di sentirmi dare della "privilegiata" perché ho un lavoro

– di sentirmi una privilegiata perché ho un lavoro

– di assistere al taglio degli alberi (pini marittimi) nella strada perché danneggiano l’asfalto

– di considerare i rumeni il vero problema di questo Paese

– di lodare Alfano

– di sentire un’affermazione e, mezzora dopo, la sua smentita

– di considerare letteratura il manufatto cartaceo che vende di più

– di considerare musica la canzone più televotata

– di considerare spettacolo quello che alza i pollici (o gli indici) d’ascolto nel Colosseo (l’alzata di medio non è, purtroppo, contemplata)

– di dovermi vergognare della mia (occasionale) competenza

– di essere indotta ad avere paura

– di pensare che un ex principe d’una invereconda ex casa regnante possa diventare in tre settimane un ballerino professionista

– di vedere bugie che nemmeno si preoccupano di camuffarsi di verità

– di avere spazio solo se compro qualcosa: nemmeno sul web esistono panchine, sono solo i sedili d’una pizzeria all’aperto (questa è per Beppe)

– di comperare una brioche al prezzo spaventoso di sessanta centesimi (ovvero, se non ve lo ricordate più, ben milleduecento lire: qualcuno s’era mai azzardato, ai tempi poetici e decimali della lira, a far pagare una brioscina vuota 1200 lire?)

– di sentirmi dire che dovrò stringere la cinghia e la colpa è del destino cinico e baro e recessivo

– di sentire che qualcuno ha proposto seriamente di costruire una centrale nucleare in Sicilia, sulla faglia di Augusta

– di dovermi preoccupare per la tenuta della Costituzione

– di dovermi preoccupare per il dopo-Napolitano

– di vergognarmi d’avere come governante un Gino Bramieri basso

– di non avere nulla da opporre, nemmeno un’opposizione

– di accettare la prevalenza del brutto, solo perché è condiviso

– di fare del cinismo una forma di simpatia

– di avere fiducia cieca nelle maggioranze

– di scambiare il superficiale per "semplice" e "sincero"

– di non accettare la complessità perché è imbarazzante e socialmente scorretta

Naturalmente l’elenco può continuare per un pezzo. Anzi, continuatelo voi (non accetto nemmeno di non condividere, infatti).

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gemelle e predatrici

  La prima volta che stava per morire, mia madre era incazzata nera con la vita e con dio e pure con noi. La prima notte d’agonia, col suo cervello che continuava a spegnersi e accendersi, la sentivo imprecare con tutta la sua forza di albero, di torrente, di roccia quaternaria, di gramigna.
 La vita d’altronde s’era sempre manifestata in lei come una forza spaventosa, che distruggeva almeno quanto poteva creare: quando partorì la prima volta restò aggrappata per diciannove ore alle sbarre del letto, lottando contro la vita, contro il dolore della vita, e contro la paura della morte. Io sola so che non lottava per assecondare, ma per opporsi a quella vita che lei sentiva esattamente com’era: vasta, potente, distruttiva, spaventosa. La vita era quella tempesta che lei poteva leggere nei fulmini anche una notte prima. La vita era quell’enigma che lei, da medico, affrontava con gli strumenti degli sciamani, delle veggenti, delle guaritrici. 

  Quando partiva per le giogaie diseguali dell’Aspromonte, a dorso di mulo – era medico condotto con indennità di cavalacatura – recitava le sue personali formule, mentre il mulo dondolava e le boccette di vetro, nella borsa, facevano il loro scientifico tintinnìo.
Lei non ci credeva, nella scienza. La scienza la ripagava ignorandola. E lei guariva dove poteva, col tocco delle mani o delle parole, a volte solo aggiustando le uscite imperfette tra i mondi. A volte solo assistendo con le labbra strette a travagli, agonie, decorsi sui quali non c’era nulla d’umano che potesse interferire.
La donna che si uccise legandosi un filo di seta al neo maligno; la famiglia sterminata dai funghi sicuri; la donna con la coda; il bambino ammazzato dalla levatrice che gl’aveva reciso il velo palatale con l’unghio sudicio.
La sua medicina era favolosa, pericolosa. Le sue diagnosi erano romanzi, invettive, lettere a dio.
  Quando toccò a lei non fu diverso. La morte ci provò in un sacco di modi. L’epatite, poi la cirrosi: il fegato secco e duro come una prugna. La pressione che s’alzava e s’abbassava in onde, cavalloni che le riempivano il corpo di liquidi, di malinconie, di urgenze, di letargo.
Il tumore al colon, che chissà da quando aveva cominciato a crescere, come un serpente rosso, e che reagì esattamente con la forza della vita, quando i medici lo scavarono col bisturi: si costruì caverne, giungle, foreste di vita sbagliata, smodata. Era un’altra espressione di quella vita dilagante e distruttiva che lei portava con sè, che lei sapeva sentire dentro la terra e dentro l’acqua.
Noi non capimmo, nella prima notte d’agonia, che lei voleva vivere almeno quanto voleva morire. Che la vita e la morte si equivalevano attraverso di lei, ma col prezzo soprannumerario del dolore.

  Mettemmo quella firma, la condannammo ad altri due mesi di sofferenza. La vita si prese quello che era suo, la morte pure: stavano tutte e due accanto al letto, a schiaffeggiarsi e urlarsi insulti che percepivamo in forma di elettricità, correnti d’aria, cattivi pensieri, temporali di là dallo Stretto. E poi facevano pace e ricominciavano.
Anche l’ultima notte fu così: la vita e la morte erano talmente gemelle che non riuscimmo a distinguerle, quando si misero tra noi e lei, e non riuscimmo più a vederla. Mai più.

Mia madre mi disse che avevo fatto male a firmare per quell’intervento disperato, anche se dopo tre giorni di coma s’era svegliata e venivano a visitarla dall’altra ala dell’ospedale, perché dicevano che era un miracolo, e il chirurgo si guardava le mani e il primario diceva con la sua voce gentile che la speranza è il loro vero lavoro.
Le regalammo altri due mesi.
Io non so se li vorrei, quei due mesi come i suoi. Penso di no.
Voglio fare testamento fin da quella notte, sono ossessionata dal pensiero di chi e come sceglierà per me. Voglio poter scrivere la mia definizione di vita.

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Leda col cigno, appunto

 La donna camminava circondata da uno sciame: erano fiori, o farfalle, o fate molto piccole. Avevano visi stretti dal mento sfuggente, occhi a punta e frinivano in modo riconoscibile. Lei ci parlava ininterrottamente, consigliandosi con loro, o rimproverandole per qualcosa. Era perfettamente chiaro che si trovava a proprio agio.
 Passò davanti all’uomo avvolto nel pitone, che gli rosicava lentamente la base del cranio, senza che lui lo desse a vedere, d’altronde. Nella vetrina si specchiavano tutti e due, l’uomo e il serpente.
La donna delle fate-fiori passò oltre, gesticolando in mezzo allo sciame: non era mai sola, lei.
Viceversa, la donna con la boccia di piranha aveva un’aria afflitta: teneva una mano dentro l’acqua, che nemmeno si vedeva, con tutti quei pesci d’oro terroso e rosso che s’affollavano attorno.
L’uomo coi gatti sembrava sereno: ne aveva due, gemelli, d’angora bianca, che gli camminavano accanto, uno per lato. Avevano un pelo candido che catturava la luce e altre cose. L’uomo sorrideva lievemente. Quando gli passò accanto la donna con la pantera, i felini si sogguardarono e qualcosa d’elettrico corse tra le pellicce degli animali e gli occhi degli umani.
  Per gli animali pesanti c’erano corsie separate: andavano e venivano orsi bruni, elefanti indiani, una giraffa. Due cammelli dondolavano di lontano, ruminando incessantemente e facendo ondeggiare i finimenti dorati: gli uomini accanto a loro avevano visi impenetrabili.
 Una tigre reale passò a grandi falcate, lasciando una scia d’odore muschiato: la donna che portava in groppa era aggrappata al suo collo, i lunghi capelli neri che si confondevano con le strie della tigre.
 Sotto l’arcata del Ponte, lo Stretto era continuamente attraversato da pescespada, orche marine e megattere, accanto a cui qualcuno nuotava o si lasciava portare dalla corrente: non si potevano distinguere le rotte degli uomini e dei pesci, e i loro tracciati argentei disegnavano come una ininterrotta scrittura.

Pensavo alla forma dell’anima, oggi: a volte è una vipera, a volte un moscerino, a volte una cavalletta d’oro posata come una spilla sul risvolto della giacca. Ma a volte è un elefante bianco, a volte un dromedario, a volte una tigre reale. Stamattina m’ero svegliata con accanto un serpente verde veleno. Poi è diventata un gatto pensieroso, una tigre da guerra, una sfinge, una poiana. Dopo aver perlustrato il cielo con gli occhi rapaci e aver riempito le penne d’ossigeno fresco, l’anima è volata giù, s’è accucciata e s’è messa a dormire, il pelo bianco che si muoveva appena al vento.

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