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Posts Tagged ‘insolitudini’

  I feroci condomini sono di pattuglia sin dal mattino presto.
S'aggirano entro i vialetti, tra le siepi di gelsomino e pitosforo, lungo le cancellate di ferro battuto. Forse nemmeno dormono, contentandosi di cullare il fucile a canne mozze sul dondolo del terrazzo grande, appisolandosi per un istante o due in faccia al plenilunio spettacolare che non sta lasciando più i nostri cieli.
 Dormono per alcuni secondi, fino a che il peso del sonno gli fa cadere di lato la testa, e allora drizzano il collo di scatto, e si guardano attorno, ostili. Poi s'assestano sul cuscino con le frange, e riprendono a fare la guardia. Il pitbull di nome Pasquale gli dorme sui piedi, un filo di bava che cola dal muso scontroso. Talvolta si sveglia anche lui, e abbaia a lungo contro il cielo, le stelle e il lago, che di notte è perfettamente immobile e marcisce lentissimo sotto la superficie salata, insaporendo le cozze.
  Il mattino arriva salutato da salve d'uccelli e miracoli sullo Stretto: la luce sorge tutta assieme, da sotto in su, e le palazzine rosa del condominio sono fenicotteri di mattoni che scendono ad abbeverarsi, tra il supermercato che alza con fragore le sue trentotto saracinesche e la fila di cassonetti spalancati dove abitano le mosche luccicanti.
 I condomini fanno la prima ronda entro le otto, otto e mezzo, controllando col decimetro tutti i palmi di proprietà, contando le bouganvillee e verificando la tenuta dei cancelli. Qualche volta li oliano, con lo stesso olio del fucile: il cancello scatta come un grilletto, avanti e indietro. Mitragliano tutti i vicini, poi passano ad attaccare quelli del condominio di fronte, che li beffano ogni anno, con qualche lavoro di trivella ad agosto, con apparecchiature misteriose che disturbano i segnali della parabola, con sacchi di spazzatura di misura irregolare. Quando hanno sparato a tutti, sono pronti a uscire.
  Scendono nel parcheggio e lo percorrono tutto, fino al cortile delle autoclavi, dove i gelsomini stellati e tropicali tracimano, anticipando ogni anno la fioritura. Li guardano con gli occhi stretti, i condomini, perché sono cespugli anarchici che non tengono in alcun conto i millesimi e la proprietà. Meditano sempre di sradicarli, e sostituirli con una rete d'acciaio elettrificata, verde. Ma cazzo quanto costa.
  Misurano i posti auto disposti per lungo, aiutandosi con le mani e con la memoria – non c'è mai giustizia nei metri quadri, accidenti – e poi passano alla zona a spina di pesce, verificano che gli specchietti siano correttamente allineati, e i copertoni non escano dalla striscia di biacca dipinta sul selciato, pronti a gridare: sconfinamento! Qualche volta beccano uno nuovo, o un visitatore, o un vero abusivo capitato per caso che ignora tutte le leggi della ripartizione dello spazio sociale, la geometria censuaria e decimale e bizantina che regola la dimensione delle vite. Allora i condomini erga omnes respirano pesante e scendono in guerra: sparano col mortaio regolamenti, strappano la sicura di circolari che scoppiano con grande fragore, muovendo le foglie della palma perenne. Qualche volta caricano la mitraglietta coi verbali delle assemblee condominiali. Non fanno prigionieri. Nelle case ombrose, sotto le pergole di legno attorno a cui s'attorciglia la vite americana, dietro le tende di tessuto, i vetri camera e gli infissi anodizzati, le mogli preparano le gocce per la pressione, in un bicchierino di carta. Sorridono il loro particolare sorriso silenzioso delle mogli.
 I condomini intanto si sbracciano, disegnano con un dito sul muro mappe catastali di alta precisione, e un po' d'intonaco si sbreccia e cade, e questo è un segno molto chiaro. I condomini non smettono fino a che il cancello non s'è chiuso dietro l'estraneo, e la proprietà è salva. Allora tornano in casa, a spiare per l'ultima volta tra le fessure della tapparella, mentre un silenzio di calce secca riempie di nuovo il cortile che si prepara al mezzogiorno.
 Le lucertole passano rapide, saettando tra le siepi, entro camminamenti nascosti tra la precisione dei confini e i punti millesimali del condominio che farebbero morire di disperazione i condomini, se solo potessero controllarli tutti. Buchi dei mattoni forati, passaggi celati nel cuore dell'oleandro (la pianta preferita dai condomini: rosa e velenosa, come un sorriso di buon vicinato), cancelletti dai denti larghi: tutto cospira contro le recinzioni con cui i condomini consacrano il loro inalienabile diritto alla proprietà, alla sicurezza, alla felicità.
  Piazzano sui muri cocci aguzzi di bottiglia, filo spinato, lance appuntite che spartiscono l'azzurro implacabile del giorno. Sistemano negli angoli i fili senzienti dell'antifurto, le fibre occhiute che moltiplicano i loro sguardi, la loro vigilanza, il loro febbrile possesso, che – dicevano i romani –
va dalla terra al cielo e forse pure oltre: qualche volta guardano dritto nella luna, che è così vasta e gialla, in queste sere, da poggiarsi in bilico sul pilone, con un rumore sgonfio di mongolfiera, e pensano a tutta quella proprietà indivisa, tutto quel terreno da recintare, tutti quei crateri sprecati.
Allora sospirano e muovono il piede, e il pitbull grugnisce, nel sonno.

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Lo Stretto salpa al mattino presto, o forse ancora di notte: il giorno non arriva da est e non è per davvero luce, il giorno sale come un fumo o una combustione spontanea di particolari ciottoli rosa, un vapore d’acque ferrigne, una vibrazione insopportabile che anima le lingue di terra, i vortici di sale, i pontili. Lo Stretto si disancora lentamente e comincia la sua massiccia navigazione, in senso longitudinale, attraverso il mediterraneo.
Una propulsione misteriosa si sviluppa sotto tonnellate d’acqua e di roccia, sotto strati di nomi accumulati, terricci, ceramiche a figure rosse e nere, ruote di carro, cocci di bottiglia, monete ossidate con profili di tiranni, pallottole, vanghe, croci e ossa umane e disumane. Nessuno sa esattamente cosa sia: qualcuno dice i vulcani, qualcuno i giganti e i centìmani imprigionati nelle segrete e nel tempo, qualcuno persino gl’incendi rossi che tormentano il dorso nero delle colline, durante le notti. I motori girano sempre più veloci, col rumore di turbina del giorno che sale – o scende: non è chiaro il movimento della luce, né la sua natura. Le eliche gigantesche si muovono, aspirano le acque ioniche e tirreniche e formano vortici e garofali, distintamente percepibili anche nei giorni di foschia: sono i buchi nell’acqua dello Stretto, la sua costante lezione d’impossibile.
Le eliche girano, e lo Stretto salpa lentamente, col suo apparecchio di terre, coste, colline e il suo sistema chiuso e aperto di correnti. Noi stiamo nelle nostre città costiere, oppure nei paesi interni – ci sono paesi che guardano il mare e paesi che lo ignorano, paesi che si distanziano dal mare e paesi che tendono il collo fin quasi a toccarlo, per esempio con strade o file di lampioni o palazzine o leggende persistenti o sogni. Noi stiamo sulle spiagge, per ora, preferibilmente le spiagge attorno alla punta, ai piloni gemelli che non perdono mai la distanza reciproca (che è il loro modo di starsi vicini, di non mancarsi).
Lo Stretto naviga sicuro, fermo, al centro del mare, con la sua scriminatura di correnti, i suoi andirivieni tra le sponde, il suo chiacchiericcio ininterrotto: noi guardiamo la Calabria, che qualche volta è azzurra e immersa in se stessa, qualche volta è nitida e vicina, davanti alla porta di casa, e non puoi spalancare una finestra senza urtare qualcosa, una palma, un porticato, una tettoia di lamiere.
Lo Stretto gonfia le vele – che qualche volta sono immense, bianche e triangolari con vertici appuntiti che toccano il cielo, qualche volta sono basse e stracciate, e vi s’impigliano nuvole nere, gabbiani grigi, fili della biancheria – e naviga, naviga tra le terre.
Ci sono un gran numero di barche, navi e zattere, bastimenti e portacontainer, luntri e velieri, pescherecci e motoscafi, disseminati tra le terre e i mari, che ci guardano passare. Vengono da ogni dove, si piazzano lì, tra gli scogli o in mare aperto, alla fonda nelle rade, all’imboccatura dei porti, solo per guardare lo Stretto che passa, lento maestoso e antico, nella sua navigazione quotidiana.
Lo Stretto avanza a velocità moderata e costante, sempre trasversale e parallelo: taglia oriente e occidente, li gira in modo imprevedibile tra i suoi confini, dove il nord e il sud, il prima e il dopo, il sotto e il sopra sono una cosa diversa. Diversa dagli altri luoghi.
Si trascina i suoi bagnasciuga cangianti, le sue spiagge di sabbie e ciottoli, i suoi scogli smeraldini, e la gente radunata sulle navi – i velisti i croceristi i pirati gli scafisti i pescatori i marittimi i pendolari i bucanieri i passeggeri i turisti i contrabbandieri i balenieri – li guarda passare, dalla punta alla coda dello Stretto, che è un immenso pesce di roccia viva, coralli lavici e cavità polmonari piene d’acqua.
Lo Stretto sfila con la maestà naturale delle balene, col senso liquido dei venti delle meduse, con la furbizia punica del pescespada. Lo Stretto si divincola dimenando un poco i fianchi, attraversa i guadi, conducendo le sue greggi bianche di navi agnelle avanti e indietro. La gente le guarda passare, guarda sfilare le coste sicule o calabre, e nessun punto somiglia mai a un altro, o a se stesso. I paesini lunghi s’intersecano sui litorali, aggrappati alla navigazione lunga dello Stretto, tirrenica o ionica, a seconda dei giorni e delle correnti.
Io non lo so con certezza, ma dicono che lo Stretto attraversi ogni giorno tutti i mari, oceani compresi, per tornare la sera al suo posto. Di sicuro attraversa il mediterraneo, perché le reti di luce che getta ogni giorno sono ogni sera cariche di suoni, echi, riflessi, pesci, sillabe. Meduse, pescigatto, conchiglie, sirene. Orche, orchi, seppie, tartarughe. Greci, fenici, romani. Arabi, normanni, spagnoli.
Gli equipaggi lo vedono passare, e c’è sempre qualcuno che grida: Lo Stretto, c’è lo Stretto… e tutti salgono in coperta a veder passare le sponde e i mari e le colline e il cielo e i pesci e i fari e le navi. Il sartiame fa razzia di nuvole, spazza i cieli, le tolde – torri, ciminiere, pali della luce, cristi lunghi, campanili, viadotti – ondeggiano pericolosamente. Qualche volta le terre ci si specchiano, capovolte, e ciascuno può leggere sull’acqua il rovescio trasparente della sua propria vita, e trarne conforto, o disperazione.
Allora rimangono lì a guardare, con un nodo in gola, fino a che lo Stretto non è un punto lontano, incontro a tramonti o albe o altre cose indecifrabili. Le vele, sono le ultime a sparire.

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Io mi ricordo, di Capaci.
Mi ricordo quella sensazione di titanic, di fine del mondo. Anche perché ero in redazione, e le notizie nelle redazioni arrivano così presto e così oscure che si fa sempre fatica a capire le dimensioni di quello che accade. Ma ho la sensazione che le dimensioni, in questo caso, non siano state comprese per molto, molto tempo.
Mi ricordo che non capivamo, che era solo un altro modo per non crederci.
Perché, in fondo, quelli che a volte credono di meno alla mafia e alla ‘ndrangheta sono quelli che ci vivono in mezzo e accanto e sopra e sotto (come il diritto di proprietà dei romani, che arrivava fino alle stelle e fino agli inferi, qui le Cose Nostre arrivano esattamente fino a lì, alle stelle e agli inferi, che poi certe volte sono la stessa cosa).
Non crediate che noi abbiamo una nozione più precisa della mafia di uno che sta a Bressanone o a Forlì. Per quanto ci riguarda, potrebbe essere come Gomorra, un paese immaginario che per le misteriose proprietà delle altre dimensioni sta qui ma è invisibile, è inconoscibile.
La mafia è talmente brava a essere ovunque, che è come se non ci fosse. E tu magari non sai riconoscerla, nell’assessore che fa bitumare inutilmente le strade, nell’acqua che sparisce dalla condotta a una certa ora, nel bar sotto casa che cambia continuamente gestione, nelle gru che allungano il collo in tutti gli angoli del cielo, e i palazzi inutili ed enormi che, piano su piano, occupano tutto lo spazio libero e anche quello già occupato.
Non sai riconoscerla nel tizio del baracchino della frutta, nel compagno di scuola che veniva sempre vestito di nero perché gli avevano ammazzato un sacco di fratelli e cugini, e un giorno è sparito pure lui, partito per chissà quale vendetta o comando.
Non sai riconoscerla nei fori dei proiettili sui cartelli stradali o sul costato del Cristo Sparato di Zervò.
Non sai riconoscerla nell’economia oscura, volatile eppure ferrea che governa certi cortili, certe piazzette, certi angoli di strada.
Tu dici: io non so, ed è vero.
Non basta che loro siano Capaci di tutto. E’ che noi, noi così non siamo capaci di niente.

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Sarà la crisi, ma quest’anno le mariecristine scarseggiano, come i ricci di mare e gli eppiauar gratis.
Rare teste mesciate, gioielli appena laminati e asciugamani di Missoni fasulli denunciano la preoccupante sparizione delle mariecristine dalle nostre spiagge, forse dalle nostre vite.
Ma altri personaggi s’affacciano alla ribalta balneare, per dimostrarci che la vita è sempre la migliore delle fiction.
Per esempio Baby Jane.
E’ un incrocio tra Bette Davis e Mirigliani, e si tumula di solito nel lettino accanto al nostro, per interminabili sedute di abbronzatura ai limiti dell’autocombustione. Infatti è ebano scuro con sfumature d’incendio. Ma i riccioli biondi sono sempre perfetti, trattenuti da mollette di strass e fiori carnivori di plastica fucsia che fanno pendant col bikini fiorato pesante, come un giardino pendulo di Babilonia o un’aiuola della stazione centrale.
Però è simpatica, ride vezzosa e dice sempre: “Non ci credereste mai che ho sessantaquattro anni”. Infatti non ci crederemmo mai. Ma pensiamo che solo il Carbonio 14 potrebbe stabilire con certezza la sua datazione.
Quasi di fronte sta Lady Godiva-Visnù, in posa da trimurti con le sue ancelle, la bruna anoressica e la bionda tormento. Ha i capelli più lunghi che io abbia mai visto, le arrivano al ginocchio e lei li tira, li avvolge, li annoda come i cavi delle navi traghetto. Poi ne fa un cono assiro che si appunta sulla testa, e siede ieratica nel lettino di centro, tra le due cortigiane che le fanno vento con la testa e le servono caffè freddo rituale, ghiaccioli di menta e marlboro. Io la guardo affascinata, e qualche volta le presenterò anch'io un’offerta. Una medusa morta, o un panino del chiosco col prosciutto antichizzato, o una bottiglietta di tè che qui costa quanto la mirra.
A volte scendono in acqua con circospezione; Lady Godiva scruta tutto il litorale, dà una scossa d’assestamento al seno (che è una quinta coppa effe) e si leva in piedi, ondeggiando come nelle processioni degli elefanti. Le ancelle si mettono ai lati e la scortano in acqua, salmodiando.
Quando s’immergono, succede qualcosa. Forse lo Stretto, che è un vecchio mare sacro e suscettibile, si rivolta nel fondale e rimescola le correnti. Io sospetto che sia invidioso.

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Ieri – nel girone dantesco della spiaggia di domenica pomeriggio – l'ho saputo con chiarezza: io odio la gente almeno quanto amo l'umanità. Sopraffatta dalla vergogna, me ne sono scappata a casa dove, in fondo, c'era pur sempre gente, ma almeno me la sono scelta e in un caso persino fabbricata da sola.
E dire che ero andata al lido degli anziani, quello dei cinquantenni diroccati ma ancora idealisti – per intenderci, quelli che ieri erano con me a fare il sit-in davanti alle trivelle, ridicoli ma temibili avamposti del Ponte delle bugie – quello delle famiglie multiple (noi laici abbiamo un gran senso della famiglia, come sanno tutti), quello che una volta si chiamava Legambiente ed era una forma di resistenza umana e balneare ed oggi è pressoché indistinguibile dagli altri lidini geneticamente modificati con dosi di eppiàuar e calcio saponato e musica tekno fino al bagnasciuga e oltre.
Ma non c'è scampo, alla televisivazione coatta delle nostre vite, e dunque la domenica ha pian piano assunto la sua dimensione tragica di reality balneare, le sue caratteristiche di alveare furioso dove è abolita ogni distanza prossemica (e talora pure ogni traccia di deodorante), la sua protervia di campionato delle molestie attive e passive.

Erano un milione circa, equamente distribuiti in centocinquanta metri di litorale. Piantavano nella sabbia mozziconi, bucce
d'anguria, cingomma masticata, chiodi, bambini. Giocavano a pallone, a palletta, a tennis, a pingpong, a rugby colpendo a caso tutto quello che si muoveva, nuotava o respirava.

Scendevano in acqua con la grazia dei bufali muschiati, e restavano
nella pozza a celebrare amori, gossip, deiezioni vicendevoli.

Lo Stretto, per giunta, che è un vecchio mare insofferente e
'mpituso, per dispetto secerneva pantani, o stagni, o correnti maligne, o flussi d'immondizie flottanti d'incerta provenienza.

Il tutto sovrastato dagli altoparlanti che altoparlavano incessantemente, distribuendo la democrazia ottusa e livellatrice del rumore che chiamano musica, che chiamano spot, che chiamano jingle, che chiamano – sigh e sob – parola.

Io ero persino affascinata, da tanto orrore, e ho resistito finché ho potuto. Poi mi sono detta: sei sempre la minoranza, povera te. Ho preso la borsa e, scansando la lotta grecoromana dei bambini accanto e il fuoco amico delle parole crociate della signora di lato (che risolve solo quelle a due lettere, tipo “sigla di Reggio Calabria”, oppure “Iniziali di Totti” e passa il resto del tempo a chiedere a me “capitale di Sao Tomè”, “il dramma scritto da Ulderico Mòzzichi nel 1765”, “nome del cugino primo di Stefano Bartezzaghi”), bombardata da una canzone che ricordava la sala macchine del polo siderurgico, sono scappata, chiedendomi dove ho sbagliato.
Ma lo so, dove sbaglio: dovrei diventare ricca, comprarmi una villa romita immersa nel silenzio e contemplare da lontano il mio amore per l'umanità, a distanza di sicurezza dalla gente.

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stretto versione cartolina

  Il primo giorno il mare è un cerchio sacro. Specie quello di qui, che ha sfondo di lago ma conserva il tono profondo, salino e drammatico del mare aperto.
Dopo aver ruminato per un inverno l'eterno pasto di detriti – che non sono più lava, pomice e roccia quaternaria, ma oramai piastrelle, marmo di palazzina e asfalto color petrolio – il mare estivo appare docile e
domato. Muove appena i fianchi tra le sponde strette dei piloni gemelli – fronte contro fronte, le dita di traliccio allargate nell'aria, la chioma elettrica invisibile eccetto che nei fruscii dei ponti radio, nei silenzi
pieni di brividi dei canali riceventi.
Confina con Scilla e Cariddi, col passato remoto e il futuro incerto, con il Continente assorto nel suo sonno e l'isola sveglia di notte, gli occhi accesi come brace. Appartiene solo a se stesso, però, o all'astrazione chiamata Mediterraneo, il ventre celeste allargato nella cartina d'Europa.

Il primo giorno devi sottometterti e invocare protezione: si entra in acqua facendo il segno della croce, che non arriva più in basso o in alto di un paio di metri, e non accontenta certo gli strati profondi e superficiali di dèi accumulati gomito a gomito. Ma per fortuna il corpo recita inconsapevole ogni genere di sortilegio, affidandosi al mare.

Scendi d'un passo, due passi nella sua ininterrotta circolazione di correnti, nella conversazione senza limiti di tempo che svolge con potenze similari o interamente differenti, chiudi gli occhi e ti lasci sprofondare, perché per antica convenzione sarà lui a sostenerti.

Non è un mare di pesci, di barche, di fari. Il mare del primo giorno arriva fino alle caviglie, poco oltre le braccia, attraverso i capelli. E' il mare personale, assoluto, dal quale continuiamo ad andare a lezione d'incoscienza, d'attesa e di ritorno.

Dedico al mare, il nostro mare intemperante, antico e minacciato, lo spazio che in questi giorni l'Unità (sì, avete letto bene: l'Unità, quotidiano fondato da Antonio Gramsci) sta, bontà sua, riservando alle mie povere cose. Siate pietosi, equi e solidali. Anche perché, a parte i miei testulli, ci sono cose ghiotte come l'Eternauta, Camilleri & via leggendo. E' resistenza umana, sappiatelo.
Ogni giorno (o quasi: siamo umani, e pure calabresi), in differita, pubblicherò qui la nota unitaria. Partecipate compatti.

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Come spadaccini, come pellegrini, come comete, come calciatori delle nazionali convocate in Sudafrica ci siamo presentati puntuali all’appuntamento con Ortigia, la luna, il castello, il mare, il tango (non necessariamente in quest’ordine).
E, non so come dirvi, ma c’è sempre qualcosa di vecchio e qualcosa di nuovo, qualcosa di irreparabilmente nostalgico e qualcosa di smagliante, in questi appuntamenti da un anno all’altro, col tango che è sempre lo stesso e sempre rigenerato, come se fosse eternamente giovane e potesse rendere anche noi – per frammenti, istanti, sguardi, abbracci – giovani ed eterni come lui.

Il Mundial

In realtà, le squadre che s’affrontano perpetuamente sul campo della milonga sono i conduttori e i seguidori (non esattamente, non sempre, non comunque gli uomini e le donne), i titolari e le riserve, gli attaccanti e i difensori, i nuevisti e i milongueri, i professionisti e i dilettanti, gli utili e i dilettevoli.
Dunque le Nazionali erano pronte a bordocampo, e allacciavano gli scarpini. Anche il pubblico era pronto, con le sue vuvuzele e l’occhio fino a cogliere ogni fuorigioco, ogni gancho di rigore.
Perché, tra l’altro, una delle cose più singolari della milonga è che i giocatori e il pubblico coincidono: guardare è parte del gioco. Così facevamo riscaldamento, perché la panchina è lunga e non sai mai quando ti toccherà guardare o giocare, e devi tenerti pronto.
Il campo, stavolta, era stato allestito nel piazzale d’ingresso del Castello, che restava sbarrato ma s’allungava davanti a noi, sui suoi basamenti di pietra sprofondati nelle radici del mare d’Ortigia, di cui da secoli è il muso armato.
Al fischio d’inizio qualcuno mormorò “partiti”, e cominciò il Mondiale del Tango: girone alla porteña, con ripescaggio e finalissima collettiva, alle sei del mattino, nell’alba dalle dita di rosa che fa fiorire la pietra di Ortigia e scatena stormi di colombe marinare nel suo cielo spalancato.
Chi ha vinto? Beh, come al solito tutti Perché il tango ha in se stesso la sua ricompensa e la sua vittoria. E la luna, la luna splendeva quasi come una coppa del mondo.

Fenomenologia della Mirada

Se dovessi acclarare che la mirada non funziona, credo che per lo choc lascerei il tango e mi darei al merengue.
Se dovessi acclarare che, a mia insaputa, una mirada m’ha colpita ed è affondata nel mare dell’indifferenza, mi ritirerei a tanda privata.
Se dovessi acclarare che qualcuno, per trarne un qualche vantaggio, m’ha mirada e s’è cabeceato da solo, non esiterei a sporgere denuncia alla magistratura tanguera.

In realtà la mirada è uno strumento potente, con un raggio d’azione spaventoso, nello spazio e nel tempo.
Ci sono mirade che cominciano anche il giorno prima. Ci sono mirade a innesco lento, che daranno frutti molto tempo dopo. Ci sono mirade retroverse, e persino retroattive. Ci sono mirade preterintenzionali e mirade dolose. Ci sono mirade di rimbalzo, mirade laterali, mirade in calcio d’angolo, mirade di rimessa dal fondo. E mirade di rigore, a dodici passi da uomo nell’area piccola.
Una mirada m’è riuscita dalla vetrina d’un ristorante: quel tipo tre ore dopo m’ha invitata. Dopotutto, in quella frazione di secondo avevamo provato un sacco d’abbracci, che restavano nell’aria, lì attorno, impazienti d’essere chiusi e compiuti.

La mirada è un riconoscimento istantaneo, una dichiarazione d’intenti, un compromesso, un manifesto programmatico. E non è affatto vero che la fa l'uomo, e la donna può solo cabecear. Come in tutto il resto della vita, la mirada te la devi seminare, concimare e zappuliare da sola, se vuoi che lui abbia l'illusione di produrla, come nuova, apposta per te. Dopotutto, gli uomini vivono di convinzioni, lo sappiamo fin da piccole, ed è meglio lasciargliele tutte.
Io, comunque, l'ho scoperto tardivamente, proprio in questo festival, attraversando la spaventosa escursione termica d'Ortigia, che è africana di giorno e alpina di notte, coerente come una luna con le sue due metà di fuoco e di gelo, di solitudine e d'abbraccio, di musica e di silenzio.
Io, agnella e allevata in un protettorato milonguero dove siamo in tutto quaranta e tra noi non c'è nemmeno più bisogno di guardarci – che c'abbiamo la mirada telepatica o sonnambula o semiautomatica – non mi sognavo nemmeno di fare qualcosa che non fosse la mia quieta attesa a bordocampo, nel mio scialletto da zia, col tacco che s'agitava nervoso a ogni milonga sprecata. Accanto a me, cento altre donne, bionde more rosse giovani vecchie brave bravissime così così, aspettavano allo stesso modo, gli occhi fissi sulla ronda dove a intervalli regolari passavano sempre le stesse (la greca col profilo greco, la manga, la tatuata, l'optical, l'indiscutibile, l'imponderabile, la foulardata, la sinuosa, la sorellastra di cenerentola, la cenerentola). Dietro di noi, in un altro cerchio mobile, i maschi andavano e venivano come lupi, scrutando il buio e le sedie, sforzando gli occhi e la memoria, prendendo decisioni e ripensandoci.
E lì stava l'incaglio.
Sarebbe bastato così poco.
Sarebbe bastato voltarsi, e guardarsi attorno, e incrociare uno sguardo e sorridere come per dire: io non ti dirò mai di no. Cosa verissima, per giunta. E non perché, dopo un paio d'ore all'addiaccio, una ballerina direbbe sì persino a un sarchiapone, persino a un Sor Pampurio, persino a un papi. Ma perché sì (il tango è una tautologia, ma solo quando è fatto davvero bene).

Il lato b della mirada me lo hanno svelato i compagnucci di merende, tangueri rifiniti che pure m'hanno confidato le loro angosce da rifiuto anticipatorio, la loro ansia da presentazione, le loro palpitazioni virili che mai, mai avrei sospettato: sotto le camicie da diabolik batte un cuore.
Forte della mia inchiesta – una specie di Rapporto Kinsey tanguero – e dopo un apposito forum al tavolo di colazione del mio B&B (tema del giorno: Perché non m'invitano? Forse perché non sono di Tallin?), son approdata in milonga con tutto un piano strategico di fibre ottiche.
Non ci crederete, ma ha funzionato.
Ho lanciato mirade traccianti che nemmeno a Bagdad la notte dell'attacco americano. Lo scialletto da zia è rimasto sulla sedia, da solo, fino all'alba.

La tanda che non ballammo

Con l’età, s’impara ad apprezzare il tango che non ballammo, a farne una milonga-ombra con una sua qualche elegiaca dolcezza.
Quel Fresedo, caro R., era nostro. E la milonga di Donato, così soavemente irresistibile, resta lì in pista ad aspettarci, P. Noi ci siamo persi tra l'onda della folla, G. , ma sarebbe stato molto bello incontrarsi. Quel tango perduto all’alba, G., non è perduto: sarà toccato a qualcun altro, forse persino al mare.

Julio e la tecnica donne

Quella la dovevo proprio fare, anche in stato di narcolessia grave(era alle 11 del mattino, quando sono svegli solo i principianti, e nemmeno tutti): la lezione di tecnica donne con Julio Balmaceda.
Tutte in calzini, compreso lui, che ci spiega serio &ld
quo;che lui sa cosa vuole da una donna”
. Almeno qualcuno lo sa. E la cosa si vede pure dal buonumore tonante che anima lui e la moglie, la dolce Corina cara a Giunone, esempio vivente di come il tango smaterializzi e aggiusti la gravità addosso.
Insomma, Julio vuole il bacino senziente, i passi che non cadono su se stessi, il giro che non è un quadrato camuffato. Vuole farci capire quando spingere sul tacco e quando sollevarci da terra.
Vuole ridere con la sua risata che riempie una stanza, e spaventa i gabbiani, fuori.

L’angolino del kitsch

Avviso: questo è un post buonista e quasi veltroniano, dal momento che ne abbiamo più che abbastanza, nel tango, di disprezzatori e ironizzatori professionisti. Noialtri mediocri ballerini abbiamo diritto alla milonga quanto qualsiasi tarantolato sopraffino, e lo rivendichiamo tutto, nel nome della democrazia meticcia del tango e dell’Internazionale dell’abbraccio, che significa anzitutto accoglienza e ascolto. (fine del siparietto etico)
Purtuttavia, poiché il tango ha anche un suo ineliminabile, stupendo lato kitsch e trash, occorrerà pure onorarlo.
Speciali ringraziamenti, quindi, alla ValentinaCrepax in tutù da dark side of Giselle, che ha allietato la nostra panchina (oltre che scientificamente dimostrato che il tulle inamidato è compatibile con la ronda);
alla giapponesina manga vestita da sorella maggiore di Pucca che si è lanciata (anzi, tecnicamente è stata lanciata) in riuscitissime imitazioni dell’alabarda spaziale;
a tutte le portatrici sane di fiorato pesante;
agli irriducibili del pannolone alla turca (sì, siamo sdegnosi e prevenuti, ma nella stessa città dove c’è un Caravaggio, un numero imprecisato di cancellate e facciate barocche e persino un teatro greco come nuovo non è ammissibile lo scempio estetico. Andatele a fare a Las Vegas, o a Sharm El Sheik, queste cose).

La tanda pericolosa

C’è sempre, in agguato, una tanda pericolosa. Come la mandorla amara nascosta nel cartoccio, come l’aspide nell’erba, come la caramella al cerume nel pacco di “Millegusti più uno” di Hogwarts, come l’editoriale di Minzolini durante il pranzo.
La tanda pericolosa non la riconosci mai al suo manifestarsi: di solito lui sembra innocuo, gentile, persino ergonomico. Tu ti affidi, col secolare addestramento della seguidora, e al primo semigiro pensi che vada tutto bene, state scivolando nel vostro corridoio senza nemmeno sfiorare le altre coppie, sistemi solari che girano attorno a se stessi e dentro la ronda, nella complessa cosmologia tolemaico-copernicana della milonga (sì, il tango è un ossimoro, ma solo quando è fatto davvero bene).
E invece no.
Il pericolo viene dall’interno.
Lo capisci quando lui scientificamente – persino con una certa eleganza – costruisce uno sgambetto, e tu lo guardi come i prigionieri dei pirati dovevano guardare capitan Uncino prima di tuffarsi dalla passerella e scomparire tra le onde. Lo eviti miracolosamente, scambiando i pesi chissà con che cosa, e sentendoti sopravvissuta, quando lui lo fa di nuovo, e ancora, e capisci che è una lotta all’ultimo sangue, e ne resterà soltanto uno. Lui.
Che, per giunta, a un certo punto comincia a usarti come scudo umano, cercando di fare in modo che qualsiasi cosa si muova negli immediati dintorni (una parada, un voleo alto, un gancho, un alito d’aglio, un insulto pesante) ti colpisca. Ed è pure bravo: ti centrano quasi tutti.
A quel punto diventa un fatto etico: salvare la dignità oppure sopravvivere. Scegli tu.
(per la cronaca, io non pratico la tanda interrupta, la mia religione me lo impedisce, quindi m’è toccato subire fino alla fine, riportando ferite laceroconfuse che ancora mi segnano caviglie e orgullo. Ma almeno so che andrò in paradiso, e sarà come lo Zen, e allora fuggirò all'inferno… ).

Una emotion

Lo so, non è corretto da dire, ma questo post è politicamente scorretto, e quindi. Quindi l’abbraccio più bello è stato con piazza Duomo, alle sei del mattino. Eravamo sole, io e lei. Lei era d’un color rosa ambrosia che fluiva da dentro la pietra, perché a Ortigia la pietra è carne, come le foglie, mentre i muri sono corteccia, il legno è mare secco, il ferro è acqua, la carne è calcare, pomice, ossidiana, marmo, roccia. Così io, di roccia friabile dopo ore e ore di milonga, ne ho toccato la pelle rosata, la dolcezza del tufo chiaro, la consistenza tiepida dei marmi, persino le volute dei balconi che rivaleggiavano con le ali delle colombe-gabbiani-rondini-aquilereali-cigni che volavano in picchiata per dissipare tutte le ombre della notte.
Ci siamo abbracciate e abbiamo ballato, allo stridìo in quattro quarti delle colombe pazze che svegliavano i mondi.

Sor Pampurio, ultimo atto

Che finale sarebbe, senza uno sguardo a Sor Pampurio? Ma solo per dirvi, miei affezionati quindici lettori, che non ci occuperemo mai più di lui. Come un Mastella, come un Lippii, come uno Scajola egli – probabilmente a sua insaputa – è uscito di scena. Al Festivallo era l’ombra di se stesso, porello: persino le transenne si notavano più di lui…
Niente giannizzeri ottomani, niente coorti pretoriane, niente stuoli di fanciulle col passaporto di Kiev. Niente pubblici ringraziamenti. E nemmeno una quebrada che facesse fermare la ronda e gli orologi.
Lo celebriamo qui per l’ultima volta, ma sappiate che ci mancherà.

Tempi di crisi e di recessione
Anche Pampurio è in questa situazione:
Al Festivallo presso il bel castello
È spento e sottotono, poverello

Nessuna lituana, russa, lèttone, estòne
Né pretoriani, né liste di proscrizione
Quando va in pista nessuno più l’ammira
Sulla ronda del tramonto si rigira…
E’ l’ombra di se stesso, ormai uno straccio
E che abbia pure chiuso un po’ l’abbraccio?

Sarà stato Tremonti, o forse Bondi
Nel suo provvedimento mangia-enti:
Lo spettacolo-Pampurio – ha decretato
Come la Scala dev’essere tagliato…

Troviamogli una russa, ed anche in fretta
Facciamo un Pampuriothon, una colletta
Che non si trovi in pista, con disdetta
Con una bionda di… Caltanissetta!

Arrivederci al prossimo anno.

(ps: Bellissima foto di MicMac – il poliedrico Michele Maccarrone, che il tango lo fa ballare e poi lo mette in posa ee ce lo restituisce sotto forma d'un'altra arte – in cui si percepisce la natura di ala dimezzata dell'abbraccio. E ci son anche la luce e il mare e le rocce di Siracusa, che entravano a tempo dentro gli abbracci, e nell'alma)

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danza in cerchIo: la vita è una maratona, ma più corta

LA SELEÇAO – La Prima Maratona di tango (la Maratangona, che un poco fa pensare a una Mara Maionchi disegnata da Fellini) mediterronea era cominciata almeno tre mesi prima: le maratone, per loro natura, durano un sacco di tempo, e cominciano dalle alchimie della selezione. Come l’Arca di Noè, i posti in prima fila a Sanremo o le feste a Palazzo Grazioli: il segreto sta nella composizione degli invitati. Il segreto, dicevano Oscar Schindler e Umberto Eco, sta nella lista.
 E così, mentre nelle sapienti cucine dell’organizzazione si aggiustavano gli ingredienti, ammettendo gli animali tangheri a coppie, come sull’arca (“due greci, due scandinavi, un australiano, due lussemburghesi, no meglio uno, ché il Lussemburgo è piccolo e tanto non devono riprodursi, due svizzeri, due messinesi, anzi no nessuno che tanto sono fuori dal Commonwealth tanguero, sono province selvagge, hic sunt leones, come Enna Trapani Pantelleria e il Burkina Faso. Due triestini, due padovani, due olandesi, due romani, due bellunesi, due francesi, cento spagnoli, trecento lèttoni èstoni gàttoni – che Sor Pampurio le fanciulle dell’Est le vuole a cento a cento, come Gheddafi, nelle sue tande. Due cinesi, per i rapporti cordiali con l’Oriente, un peruviano, un filippino. Due argentini porteñi dop, che eventualmente si può chiedere l’autografo e toccare le vesti, e forse pure esporli in una gabbia dorata al centro della milonga, e tirargli da mangiare ma poco che poi stanno male. Uff, la legge sulle minoranze etniche e le quote rosa: un paio di catanesi, qualche palermitano, pochi per carità, addirittura una calabrese. Etruschi no, non ce ne sono, gli esquimesi fanno i difficili e da Atlantide non si sono fatti vivi, accidenti a loro”), altrove fervevano i preparativi.
  Totò (farolit) e Peppino (io) progettavano il lungo viaggio che li avrebbe portati nel cuore di Palermo: ventotto ore a dorso di mulo, oppure ventisei sulla littorina, vestiti da milanesi, circondati da bauli e cappelliere dove, per sicurezza, avevano messo trentotto paia di scarpe da tango, sedici chili di pasta, quattro galline e dodici capocolli. Pronti a scendere, fermare una guardia e chiedere: Noio vulevon savuàr l’indriss de la milongh… Scusi, ma per tangare dove dobbiamo tangare, per dove dobbiamo tangare?

 Alla mitica milonga dei Candelai – dentro la Palermo porosa e barocca, sia pure infestata dai pub dove si mescolano meusa e house music (diciamo house meusa) – non chiesero loro nemmeno il passaporto (che Totò e Peppino s’erano preparati, in quei mesi, sentendo raccontare di immensi campi col filo spinato in cui si veniva divisi, e veniva tatuato un numero sul braccio, e qualcuna veniva condotta in un luogo orribile, lo chiamavano “panchina”, dove sarebbe stata costretta a restare per ore e ore… ), anzi annodarono loro un nastrino di velo al polso, consegnarono cioccolata modicana benedetta e li spinsero oltre i tendaggi di velluto.

LA MILONGA – Ora lo sappiamo tutti: la milonga non è un luogo, o almeno non è un luogo spontaneo. E’ piuttosto un accadimento (un accadimento terapeutico, diciamo). Un luogo deve costituirsi in milonga, deve coagularsi e assumere la sua orbita circolare, come un giovane pianeta. Ma ci sono luoghi più luoghi di altri: i Candelai è uno di questi.
 Ex mobilificio, ex bordello: il tango ama i luoghi antichi e stratificati, nutre le sue radici profonde attraverso gli strati saporiti di storie, vite, macerie e gioielli sepolti. I Candelai è un luogo irregolare, fitto, separato. Le sue tende di velluto chiudono fuori il tempo, i suoi mobili spaiati, accostati per caso e dissonanza, riflettono il meticciato prodigioso e creativo del tango. La sua fisionomia stravagante – la balaustra, le scale, i pilastri, le nicchie – disegna una geografia immediatamente congeniale, subito saturata dal tango, dalla musica (bellissima: i sette musicalizadores, un numero giustamente magico) che arrivava a inzuppare ogni angolo libero, dai passi che formicolavano dappertutto, anche tra la gente seduta – perché gli sguardi, in milonga, ballano come i piedi.

 Totò e Peppino, malgrado le gelide sciangazze (do you know sciangazza?) che talora tagliavano l’aria secondo l’incomprensibile meteorologia della milonga (l’equatore è polare, i tropici si toccano e si inseguono, come le schiene dei ballerini, che non devono incontrarsi mai ma inseguirsi sempre), fecero un “ooohhhh” di meraviglia. Qualche metro più in là, appoggiato ai parapetti fluo da cui s’affacciavano i maratoneti – le donne come al balcone a far calare la treccia – un maravigghiato da milonga stava a bocca aperta, come davanti al presepe.

 E ce n’era ben donde, anzi d’onda. Un’onda buena inarrestabile. In effetti, la Maratona è un mare, un piccolo oceano che non si ferma mai. Lo dicevamo tutti, entrando a qualsiasi ora del giorno o della notte: “Qui non è cambiato niente”. Perché il tempo, nella maratona, si ferma fuori dalle tende, fuori dal cerchio. E’ il resto del mondo, a scorrere oltre (e infatti Totò e Peppino uscirono che erano trascorsi trent’anni, Berlusconi era sempre presidente del Consiglio, arconte e pontefice massimo, Lombardo preparava un nuovo partito, si dovevano aprire i cantieri per il Ponte sullo Stretto e Pippo Baudo stava per presentare Sanremo).

DONNE, UOMINI E SARCHIAPONI – Ma dentro il cerchio, ah dentro il cerchio.
Le donne erano bellissime. Per lo più trentenni alabastrine dai polsi sottili e il fondoschiena orgoglioso, purtroppo talora deturpate dalla maligna moda del pantalone-pannolone (per tacer del tanguero in pannolone gigante, e pure arancione, che faceva venir voglia d’organizzare una colletta per comprargli un gessato di seconda mano). Ma la minoranza etnica anziana e strassata faceva la sua figura.
E maschi d’ogni tipologia: nordici illimitati, latini tascabili, pelati in odor di Famiglia Addams (zio Ocho, diciamo), lungocriniti, veroniani e varoniani. Cravatte espressioniste e pantaloni hiphop, giacche a tre bottoni e magliette della salute. Un maglione norvegese (la proprietaria, fanciullona bionda con seni e chiome da valchiria, si lamentava del freddo di Palermo: le vostre case sono fredde. I loro pinguini non potrebbero viverci).
E ogni tipo di tango: per lo più, almeno nel primo giorno (ma il tempo della maratona non è misurabile con strumenti umani: un giorno può durare duecento tande, ottocento ore di panchina, cinque minuti di conversazione, un sonno agitato sul sofà bassoimpero), un salon nevrotico con inquietudini nueviste, poi assestatosi in un salon moderato, mentre negli angoli fiorivano le enclave milonguere.
 Pochi, stupendi sgomitatori – vogatori mancati, un “due con” che percorreva la milonga come una piscina. E poi esteti da bordopista, compositori di haiku tangueri (uno per tutti: “Mancata una parada
                                                al suo piede sinistro.
                                                S’è fermata lo stesso”), vecchi navigatori di milonga, replicatori di tande, prestatori d’opera (“ma balli da ore, come fai?” “salto le milonghe” “ah”), ballerine assertive (“giuro che l’ho sentito: lei m’ha marcato un mezzo giro a sinistra” “E tu?” “E io l’ho fatto”), arcangeli Rubieli, maravigghiati di Candelai.

SOR PAMPURIO L’IMMANCABILE – E poi lui, Sor Pampurio (per chi non lo sapesse, qui cominciò la sua epopea):

Sor Pampurio è arcicontento del suo nuovo appuntamento
ché Palermo l’incorona duca della Maratona
Fa la lista degli ammessi, dei salvati e sottomessi
E poi regna tra i divani stretto fra i suoi pretoriani
Balla sì con degnazione, con la lettone o l’estone
Guata le altre con disprezzo: io qui sono il meglio pezzo…
Tu fanciulla fortunata, zitta e segui, o sei bannata…

E la milonga che, imperturbabile, percorreva la sua orbita ferma nel tempo, con la musica e le tende e le tande, e una sensazione come di tango infinito. C’era pure una tisana – lassù nel buffet dove si mescolavano gambi di sedano e mandarini, biscotti di mandorla e pomodoro, proprio come il tango là sotto – “per un tango infinito”. Chi l’ha bevuta dovrà tornare, come la melagrana dell’Ade.

ps: è stato molto bello, e io non sono ancora tornata del tutto. Un pezzetto è ancora alla maratona, e chissà quanto ci metterà, ad uscire.

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il figliol prodigo, e il padre prodigo, di Pedro Cano

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   Il padre morto era seduto sulla mantegna laterale, e guardava giù. Il figlio stava in piedi sul praticabile più alto del palcoscenico, che poi era un traliccio del cantiere del Ponte, o la banchina d’una stazione isolana dove i treni passano in fila indiana, o la passerella d’un ministro o la panchina d’un invalido finto.
   Non che avesse proprio voluto chiamarlo: di solito il figlio lo chiamava in momenti privatissimi e incomprensibili. Quando scendeva dalla strada a spirale della sua casa romana, quando la luce s’inclinava impercettibilmente oltre il crinale dei colli, e i laghi salini di Ganzirri diventavano neri di colpo. Che poi lo sappiamo tutti: quando li chiamiamo di rado arrivano subito, e qualche volta non arrivano per niente e pensiamo pure d’essere soli. E in fondo la morte non è che una specie di solitudine da tutte e due le parti.
  Ma stavolta stava scritto lì, nel copione, nero su bianco: “Cinque discariche, cinque, qui attorno. Cinque discariche per gli inerti del Ponte – e lì la parola “inerti” diventava gigantesca, e si vedeva chiaramente che lui pensava che gli inerti siamo noi, sono i bravi cittadini di Messina sordi e ciechi a tutto, e probabilmente è così – cinque discariche. Una sul cimitero di Granatari… “. Il cimitero di Granatari.
Il padre stava da anni in quel cimitero, buono buono, senza pretendere nulla. Un morto savio, di poco spazio, contentandosi d’invecchiare senza fiori nel vialetto stento, dove il sole acceca fino al pomeriggio, i gatti scarni passano oltre e persino l’erba lascia perdere.

  D’altronde, ognuno l’aveva seppellito dove gli piaceva di più. Suo fratello, il poeta, lo teneva nella vecchia casa dove avevano vissuto assieme, lui e il padre morto, per un inverno lunghissimo, giocando a briscola nelle sale vuote, inseguendo pipistrelli e piangendo l’uno di nascosto all’altro lacrime fredde.
 Sua sorella aveva troppa fretta per tenerlo in un solo posto: lo teneva per lo più tra i giocattoli rotti delle gemelle, e ogni tanto sbuffava e pensava “devo riparare papà”, ma poi gliene mancava il tempo.
 
E sua madre, sua madre aveva un numero imprecisato di fotografie degli anni Cinquanta dalle quali non riusciva nemmeno a uscire, certe volte, e toccava stare lì ad aspettarla anche per ore, per aiutarla a togliersi il cappello a larga tesa e i tacchi alti e la malinconia.
    Così, quando il copione aveva detto chiaramente, nero su bianco: “il cimitero di Granatari, cancellato”, lui non aveva potuto trattenersi. Alla prima, una volta arrivato a quel punto lì, aveva alzato gli occhi e lo aveva visto, il padre morto, seduto sulla trave, in mezzo alle corde calate dalla graticcia, che lo guardava.
   “Papà, mi dispiace, ma è tutto vero!” aveva esclamato, e la gente aveva riso e applaudito, e anche il padre aveva riso un sorriso mezzo e aveva fatto cenno che sì, vabbè, lo sapeva, non ci si poteva far nulla. Non aveva parlato, perché – se ci avete fatto caso – non parlano mai. Sarà perché si esprimono direttamente, con varietà di luce e sentimento che comprendiamo immediatamente. Sarà perché la voce non potremmo sostenerla, ci polverizzerebbe il cuore subito.
 
E il figlio quasi piangeva, e aveva continuato a dirgli cose, del tutto perdute nel fracasso degli applausi, e il padre aveva risposto che sì, vabbè, e aveva fatto gesti stanchissimi e pochi, con le mani ossute e la vecchia faccia amata.
 Gli altri attori e il regista s’erano scandalizzati, e pure alcuni spettatori che lo conoscevano, e sapevano di Granatari e del morto che stava lì senza aspettarsi nulla. Ma a lui non importava: era riuscito a portarlo lì, suo padre, dove non c’era stato mai nessuno, e ora doveva parlargli, altroché.
 
Lo faceva ogni sera, arrivato a quel punto, quando sapeva che poteva guardare lì, in alto e dentro il sipario, che lui, il padre morto, stava lì e annuiva e gli sorrideva un poco ché sembrava  pure gli dicesse, quasi, finalmente, forse, “bravo”.

stasera ho visto M. in scena (davano Lavori in corso  al Vittorio Emanuele) parlare con suo padre, e c’è chi s’è scandalizzato, ma io avrei fatto lo stesso, l’avrei portato lì con me, nel cuore del mio mestiere, della mia arte, e ci avrei parlato davanti a tutta la città, quella visibile e quella invisibile, quella viva e quella defunta, quella che c’era e quella scomparsa, tutte quelle che avevano portato me lì, con le mie mosse e le mie voci, e lui lassù, appeso tra le funi, disincarnato e presente.

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pesci di pietra piangono lo Stretto perduto 

 Signore e signori, questo è un invito. A tuffarvi nell’estuario dei romanzi fiume, o meglio ancora a portare altra acqua da disperdere nel mare.
E’ aperto il sito "Microcenturie"
http://www.microcenturie.it/ (appunto, "estuario per romanzi fiume di breve corso"), inventato da quel geniaccio di Effe, blogger spretato e terrorista della Rete (avete presente una sorta di Greenpeace della letteratura? ecco), dalla finissima Zena, allevatrice di pesci di nebbia, dalla vulcanica Cronomoto, esploratrice di ucronie, il tutto amalgamato dalla websapienza del nuovo Asimov, l’Hari Seldon di isola virtuale. Lo scopo non è allineare in bella mostra belle scritture, ma raccogliere bicchieri di romanzi fiume e versarli dove ce n’è più bisogno: là fuori, in strada, tra la gente.
  Lo scopo è scrivere, ma soprattutto diffondere: copiare (a mano è assai bello, ma col copiaincolla è più veloce) e lasciare per strada, sulle panchine, sui sedili del treno, del bus, del tram, del taxi. Mettere in una bottiglia e abbandonare ai flutti dello stagno della villa comunale, dello Stretto, del porto, del lavandino della pensione.
Quindi scrivete, scrivete, scrivete ma soprattutto portate con voi, attraverso voi: il mondo ha sete di storie, anche se non lo sa. 

  Ah, io ho contribuito con questa microstoria qui sotto (ma ce ne sono già altre, strabellissime). Ma sono del parere che siano anche meglio romanzi fiume più piccoli, di tre righe al massimo. Romanzi a dorso di formica, appunto.
Lo so, la brevità è lunghissima a farsi. Ma poi scenderemo tutti in paradiso, prima o poi (che a salire all’inferno son bravi tutti).
Una raccomandazione speciale a Jacopo Masini, confezionatore squisito di romanzi illimitati in tre righe. Jacopo: c’è molto da fare, là fuori.

L’ULTIMA CASA

L’ultima casa resisteva a ogni vento, ma cigolava fin nelle ossa. Era inclinata come certi alberi, con le radici di fuori, che l’onda quando batteva forte gliele bagnava d’acqua salata, e poi il sole le sbiancava come dita. L’ultima casa non ci poteva niente, ad abbatterla o anche solo a scoraggiarla.
Teneva gli occhi quasi sempre chiusi, con le persiane a mezzo e le tende che gli restava uno spiraglio, una linea scarsa ma tanto la luce di ferro dello Stretto entrava tutta in una volta, e s’allargava per le stanze.
Aspettavano solo che la vecchia morisse, e anche la casa aspettava: che si stancassero, o che il mondo finisse. Tanto, il tempo cambiava, sulle rive del mare, e nelle stanze circolavano varie specie di passato e futuro, senza incontrarsi per forza.
Qualche volta si vedevano le trivelle scendere sui fondali e incastrarsi nelle rocce, e poi restare lì e diventare tane di murene, alberi di corallo nero o pezzi del palazzo reale degli dei. Oppure passavano le navi-città, lente e incastellate fino al cielo, e le auto e i negozi si specchiavano fuggendo nei vetri della casa. I ruderi del Ponte, o forse erano i piloni immensi in costruzione, lunghi fino alla luna, larghi centomila miglia marine, non crescevano mai. Gli operai non si vedevano più, e nemmeno i pescatori che allineavano le canne sugli scogli.
Più spesso erano i bambini a tuffarsi, bambini di cento o duecento anni, perché da molto tempo nessuno camminava sulla spiaggia, da quando i bidoni s’erano corrosi col sale dei due mari, e avevano lasciato uscire i vapori radioattivi.
La vecchia nemmeno se ne ricordava: continuava a vedere bagnanti col cappellino, e aerei futuristi che venivano a bere poco prima del tramonto, le carlinghe scintillanti che scomponevano la luce nei colori primari, e arcobaleni perfettamente ortogonali che tagliavano l’orizzonte. La vecchia era talmente vecchia che non distingueva più ciò che ricordava da ciò che aveva immaginato. Tale e quale a dio.
L’ultima casa sospirava solo in certe serate arancioni, quando sirene morte tornavano a cantare, e le stelle marine con otto o nove punte risalivano dal fondo, o forse erano le stelle del cielo, che erano dure e bagnate, a scendere roteando, e chiunque avesse sentito quelle voci avrebbe provato come un fastidio, una nostalgia, come una piega rigirata lì, dove nessuno aveva più un cuore.

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