Qui sta succedendo qualcosa. O forse no, qual è il contrario di succedere? Insuccedere, abcedere, retrocedere, retroaccadere?
Le lampadine si fulminano una dopo l’altra, con un lampo, una capriola all’indietro, un flash di buio: cammino nel corridoio e mi sento una fata ignorante, con la candela che fa buio e le ombre rovesciate. I filamenti di tungsteno s’assottigliano di colpo ed esplodono, con un fragore di mondi appena smorzato dal vuoto del bulbo e del pomeriggio.
Il forno, invece, tende all’incandescenza: carbonizza qualunque cosa. Non ragiona più, le manopole girano a vuoto e mi sembra di riconoscere l’accanimento di famiglia, a bruciare senza riflettere. In compenso, lo specchio ha una macchia proprio al centro, come una distorsione, un fuoco opaco che corrode le immagini, le sprofonda verso gli abissi marini degli specchi, il delirio intrappolato dalla lastra d’argento, dal muro, dalla convenzione d’uso che stabiliamo con loro.
Il cavatappi s’è spezzato nel collo d’un syrah, il suo passo di ballerina d’acciaio – che pure sembrava illimitato: pochi oggetti sono rassicuranti quanto un cavatappi – interrotto, inservibile. La tenda è morta di consunzione, logorata dallo scirocco: il filo s’è dissolto, l’incannucciato è precipitato con un rumore d’angeli caduti, d’ali perse, di sgomento.
E i sogni, i sogni – governati dalle lune di settembre, che sono terribili – si sono fatti insostenibili. Sogno corridoi, ascensori, cimiteri. Sogno i morti (e pure Garcia Marquez, che qualcuno dice che è morto da almeno quindici anni e forse è vero: tutti gli ultimi romanzi sono decisamente postumi)(e comunque, se lo sogno vuol dire che lui pure è un oggetto terminale, con fili e manopole e lastre d’argento prossime a fulminarsi). Sogno me stesse come lampadine bruciate, forni irragionevoli, specchi spalancati e tende precipitate. Sogno morti addomesticate che mangiano dalle mie mani e s’acciambellano sul sofà.
“E’ l’autunno” mi dice il coro greco delle zie, senza crederci.
Io credo sia piuttosto qualcosa che si congeda, ma non so leggere cosa. Perché siamo analfabeti, certe volte?
E mentre io mi balocco con queste morti striscianti e domestiche, con infime tragedie da veranda, nel mondo accadono cose vere.
I monaci birmani, per esempio.
Loro camminano per le strade della città occupata, sussurrando mantra, le tuniche rosso volontà ben strette attorno al corpo. Non fanno caso alle pallottole. Il punto non è morire.
Ho spiegato a mio figlio la bellezza straziante di questo coraggio, e la natura delle prove che certe volte, a certe comunità umane, vengono chieste. Gli ho parlato d’un sacco di parole maiuscole, quelle che non uso mai mai: l’Uomo, la Libertà, i Diritti, la Verità. Mi fermavo un attimo e raccoglievo il fiato, prima di pronunciarle. Le maiuscole si devono usare solo nei casi necessari.
Gli ho parlato dei monaci che percorrono, avanti e indietro, la capitale defunta e assassinata, e i loro passi che battono ritmici ne risvegliano il cuore, che prova a pulsare, rosso volontà e poi rosso sangue, una due volte, una mille volte.
Un’eco del battito arriva fino a qui, pensate. In mezzo alle lampadine esplose, alla morte minuscola che dorme sul balcone, rivolta allo scirocco o alla luna, sotto la tenda crollata.