
Qualche volta ho il dubbio, ma qualche volta ne sono assolutamente certa: la vita è superiore a qualsiasi sceneggiatura.
Per esempio ieri notte.
La baby sitter, appena dopo cena, s’era vista tagliare la strada, tra la cucina e il salotto (mica un salotto buono, diciamo un salotto alla buona, un saloncino con vista, pieno d’oggetti, ché la proprietaria c’ha avuto la sindrome da fine millennio, da piccola, e ha un poco il complesso dell’Arca, di Noè o di Indiana Jones, e così accumula cose, le salva dal naufragio, dal diluvio, le accoppia perché figlino un altro mondo da abitare, un’enclave amica in mezzo ai territori occupati) da un affare su quattro zampe, zampine diciamo. La ragazza, che ha una perfetta compostezza britannica, e questo è uno dei motivi per cui l’abbiamo assunta – noi che siamo una famiglia di tachicardici – e la paghiamo quanto un neurochirurgo, aveva prontamente chiuso la porta del salotto, e aveva preso il telefono.
No, non il 112, e nemmeno il 113. No, non aveva chiamato nemmeno me. Pacata, aveva chiamato il mio ex marito perché la caccia grossa – si sa – è cosa da uomini. Poi s’era accampata in camera da letto con mio figlio, otto anni, tentando d’anestetizzarlo con la somministrazione straordinaria d’una cinquantina di canali Sky.
Naturalmente il mio ex marito – che ieri non lavorava ed era chissà dove con chissà chi (le sue accompagnatrici hanno la vita media delle drosofile della frutta) – con la sua migliore voce da Shane (il cavaliere della valle solitaria, per la cronaca) le aveva detto: tranquilla, pupa, più tardi vengo e sistemo tutto io.
Naturalmente sono arrivata prima io, verso le undici e venti. Tutto taceva, soprattutto la baby sitter, la quale s’è guardata bene dal dirmi alcunché, sperando che non mi venisse in mente d’aprire il salotto, dove lei era sicura d’aver chiuso la bestia. Per fortuna non m’era venuto in mente.
Verso mezzanotte e cinquanta, quando mio figlio dormiva sognando Pokemon e io dormivo appresso a lui sognando finalmente di dormire, squilla il telefono. Era il mio ex marito, che con una cautela da Condoleezza Rice m’informa che abbiamo un problema. Quale problema, faccio io, aspettandomi –chessò – ch’avesse messo incinta una monaca di clausura, o al limite la moglie d’un boss, ch’avesse venduto lo Stretto – con tutto il costruendo Ponte – ad un emiro dando l’indirizzo di casa mia, ch’avesse venduto me all’emiro, eccetera eccetera. E lui: abbiamo un animale in casa. Un animale, che animale? Un animale piccolo. Ah, meno male, una tigre m’avrebbe impensierita. E poi, tu come lo sai? M’ha chiamato la babysitter. Ah, t’ha chiamato la babysitter. M’ha detto che l’ha visto, che non è una lucertola e nemmeno un geco, perché è più grosso. Quanto grosso? Beh quanto un topo, più o meno. Io, preoccupata per gli ippopotami, tiro un sospiro di sollievo. Lui mi fa: comunque sto arrivando, versami un bourbon e apri la porta. Hemingway non avrebbe detto di meglio.
Gli apro la porta, un poco sconcertata, e dopo un sorso di bourbon cominciamo a vestire il guerriero: guanti di plastica, quelli dei piatti, gialli, la scopa quella grossa. Tu, mi fa guardandomi le pantofoline giapponesi, mettiti scarpe chiuse che non si sa mai. Indosso gli scarponi da montagna sotto il pigiama, che non si sa mai. Preparo pure una scatola, perché lui – che è di cuore tenero, almeno con le bestie – lo vuole catturare ma non uccidere. Figuriamoci.
Chiudiamo tutte le porte, e mentre mio figlio, nell’altra stanza, sogna di cacciare un Pokemon Leggendario ci mettiamo a caccia.
Il salotto è una stanza grandissima, con una libreria di Babele di sei metri per due, due divani e un sacco d’ammennicoli, quelli dell’Arca de Noantri. E la tigre può essere ovunque.
Dopo quaranta minuti abbondantemente infruttuosi, in cui il mio ex si muove come se lo dirigesse Tarantino in Kill Bill e io lo seguo con la scatola, facendo scricchiolare gli scarponi che ogni volta ci pare sia il topo (cioè, quello che speriamo sia un topo), siamo quasi sul punto di rinunciare, e io sto già pensando a come sigillare la stanza con la ceralacca, in attesa d’ispirazione.
In quel momento chiama il mio fidanzato, che è appena uscito dal lavoro (facciamo tutti e tre lo stesso lavoro, ovviamente). Lo recluto immediatamente.
Ci troviamo, in breve, in tre, anzi in quattro: io, la tigre, il mio ex marito e il mio fidanzato. I due guerrieri discutono sull’arma: uno sostiene la superiorità della scopa, l’altro scuote la testa, assolutamente no, la scarpa o un oggetto duro, meglio una mazza. In effetti, l’unica esperienza dell’ex sono i film di Clint Eastwood, mentre il fidanzato abitava in campagna. E poi – diciamolo – in un qualsiasi film l’ex marito sarebbe Jack Nicholson, il fidanzato sarebbe James Stewart.
James – che, diciamolo, in fondo è l’uomo che uccise Liberty Valance (però io amo di lui soprattutto la sfumatura verde-Harvey degli occhi e dell’anima) – è subito decisivo: è sotto un divano, ne sono certo.
Io e l’ex, che cittadini e libreschi come siamo c’eravamo svuotati tutti i nove scaffali a piano terra della libreria, pensando di trovare l’ippopotamo rannicchiato a mordersi qualche copia di Pirandello o una raccolta di Mafalda (la libreria è orientata secondo i pesi specifici: in basso stanno le immaginazioni molto dense e pesanti, i colori vividi, le favole, le storie senza vuoti: i fumetti, i siciliani, la mitologia, i sudamericani)(via via si perde peso, si passa per inglesi, tedeschi, giapponesi, fino al vuoto zen, anzi proprio all’astrolabio dell’ultimo scaffale), siamo molto delusi. Ma non c’è tempo di recriminare.
Decidono di ribaltare i divani, e al secondo lo trovano. La tigre, in effetti, è un topo. Un topolino di campagna, minuscolo e veloce. Ma non ha fatto i conti coi riflessi da cecchino del mio ex (sbagliatissimo, garantisco personalmente), che riesce a pestargli la coda e lo immobilizza. Qui passiamo da Tarantino, anzi da Woody Allen, a Walt Disney, col topolino che si dimena e sta certamente per invocare Cenerentola (anzi, Cenerella), e due uomini in tenuta da battaglia (per tacer della donna in pigiama, scarponi e scatola) che incombono su di lui, obiettivamente giganteschi (specie il fidanzato, devo ammettere): le loro ombre lunghe si stagliano sulla parete, minacciose.
Dovevamo intrappolarlo, in origine, e restituirlo non si sa bene a quale campagna, ma l’istinto della caccia è troppo antico e radicato, e in pochi istanti Clint Eastwood pren
de il sopravvento su Greenpeace – per tacer di Greenaway , che l’ex ha sempre amato come altri amano la Juventus o la cioccolata (no, James ama così soltanto Bach, o al limite me). Così, dopo un breve fermoimmagine – qui la mano è di Sergio Leone, “C’era una volta il West” – mentre l’ex tiene ben saldo il piede (calzato d’una Camper cingolata: lui tende a vestirsi più o meno come Carmelo Bene incrociato con Mr. Crocodile Dundee) sulla coda, il fidanzato (che, di suo, avrebbe sottili mocassini inglesi del tutto inadatti: lui è tutto camosci e camicie di lino a trama larga) cerca di finire la preda a colpi di scopa, lamentandosi per l’inadeguatezza dell’arma, e che lui l’aveva detto (essì, sempre un uomo è). Infatti la preda riscappa, e ricomincia la caccia.
Dura poco, però: il topolino è stanco e terrorizzato, e non trova di meglio che nascondersi sotto l’altro divano, dove lo trovano subito, lo immobilizzano e siamo quasi alla fine – si sente pure dalla colonna sonora. Allora il fidanzato mi chiama precipitoso: presto, un’altra arma, non hai una mazza? No. Come, non hai una mazza? No, non ho mai avuto una mazza, altrimenti non saremmo qui in quattro, adesso, cosa credi (in effetti lui ha sempre avuto una mazza da baseball, per gli usi domestici di base: blatte, rumori sospetti, mattoni da rompere, incubi da scacciare. Quando suo figlio – sì, anche lui è al secondo giro – aveva paura d’imprecisati alieni che gl’avvelenavano le notti, gli consegnò, fiero, la mazza, per tenerla vicino al letto. Ecco cos’è un passaggio di consegne)(provò poi a raccontare la cosa a mio figlio, che ha una vecchia questione irrisolta con l’attaccapanni della camera da letto, e lo esortò a munirsi di un’arma da tenere vicino, di notte: dài, su, chiedila alla mamma. Mio figlio, infatti, si voltò verso di me e mi chiese un lanciagranate).
Va bene, lo ammetto, non possiedo una mazza, ma anch’io ho una preparazione di base: ho visto per una vita Stanlio e Ollio, e soprattutto Tom & Jerry. Così, cigolando sui miei scarponi da neve, vado in cucina e scelgo con attenzione, calibrandola col polso, una padella.
Quando torno con la padella i cacciatori mi guardano storto, ché gli rovino l’estetica dell’impresa. Anche se, faccio, notare, loro hanno, rispettivamente, i miei guanti per lavare i piatti e una scopa. Si guardano sconcertati: credevano d’avere elmi traci, alti schinieri e lance achee.
Insomma, la padella si rivela la vera arma letale. Mentre mio figlio, di là, immerso nel sonno feroce degli innocenti sogna di catturare un Pokemon drago di sette metri, il topolino riceve tre colpi ch’avrebbero steso l’incredibile Hulk, e giace per sempre sul pavimento del salotto. I cacciatori, ansimanti, si dicono "compare" e battono i cinque. Cioè, fanno risuonare la lancia sugli scudi di bronzo. La donna, con in mano la scatola per la sepoltura, li ammira in silenzio, un poco distante. Sono fiera di voi, ragazzi.
titoli di coda, direbbe il topo.
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