La casa s’aggrappa ai sogni. Spalanca chilometri vertiginosi di corridoi, androni, tinelli, ballatoi. Dovunque sei, ti ritrovi a camminarci dentro, dentro al suo spazio di cantina e cattedrale. Gli sgabuzzini ti trattengono, le maniglie non cedono, la casa non ti lascia uscire mai: l’esterno sono altre stanze, dove cadono piogge controverse, di ghiacci e di petali, soffiano bora e scirocco, montagne reggono con la punta gelata i controsoffitti, il parquet si scioglie nello Ionio (camminando oltre, dopo il bagnasciuga, s’apprezza la durezza traforata, di fossile e conchiglia, degli strati di passi sovrapposti, anno per anno, vita per vita).
Le finestre danno su altre finestre, la casa dà su se stessa, come di solito i gusci, la vita. Salgo e scendo per i pochi scalini, tiro su le tapparelle con un rumore di consuetudine, tocco tutti i pulsanti, i punti sensibili dell’anima elettrica e suscettibile della casa. Non m’accorgo che sto sognando, o forse sono sveglia dentro al suo sogno interminabile (le case sognano di non essere mai finite? D’abitarsi da sole? Di girarsi, per un attimo o un secolo, dalla parte opposta, dove sono facciate cieche pennellate a catrami, di spalle ad altre cento file di muri senza vista?).
Infine c’arrivo: la stanza dei Natali usati.
Il mio primo ci dev’essere, confuso coi ricordi vecchi della casa di prima (la casa è sempre una sola, che trasloca da un luogo all’altro muri, conflitti, enciclopedie, gradini, cristalli, travi portanti, maioliche, affetti, davanzali). Ci sono di certo abeti veri, che fanno odore di resina e Aspromonte: sono visibilmente eterni, malgrado gli aghi caduti, l’acciaio della scure, le vene di metallo nuovo e asfalto che fanno rabbrividire la terra vecchia di secoli e millenni, malgrado i termosifoni e l’Epifania.
C’è mia madre che stringe gli occhi, perché lei è cresciuta sotto il gocciolìo della neve, coi geloni a ardere nelle scarpe e le mani gonfie: Natale non è alberi senza odore, fuoco domestico e zucchero a velo; Natale è un braciere per metà di ghiaccio, cogli occhi dei lupi che cingono di luci rosse il cerchio del paese, magri ingiusti e affamati come tutti gli altri. Natale è il panettone dello zio Basilio, che arrivava da Milano, in uno scatolo grande come una chiesa, e sacro. I bambini potevano sentire solo di lontano il suo odore d’uvette, di case con l’ascensore e il tappeto, d’interruttori, arista di maiale, pasta ripiena e cappotti caldi.
C’è il Natale della nonna vecchia, che è un bambinello di cera sotto una campana di vetro. Io lo guardavo, e mi chiedevo quale nascita potesse essere nascosta sotto tanta morte, o forse vedevo solo lo sguardo predestinato dei bambinelli di paese, pallidi e ingiusti e pieni di domande feroci come i lupi.
C’è di certo un Natale di palle di vetro soffiato che non potevo toccare: ogni palla conteneva una vita di pulviscolo d’oro, di fortuna, di cose preziose appese così in alto che era quasi inutile pensarci davvero. Natale invece era basso, pieno d’anni Sessanta, condomini color fumo, attesa e rinuncia controllata.
C’era però anche un Natale d’abbondanza e di rincorsa, di secchi di vongole che sputavano mare poco a poco, di stocco ammollato sotto un filo d’acqua, di cavolfiori e carciofi tropicali, d’impasto per le crispelle che stava zitto sotto un panno bianco, e gonfiava. Un Natale di ricotta e scirocco, d’olive ripiene e olive secche che rinvenivano nella ‘gghiotta, dove nuotavano lontananze diverse: pesci d’oceano, pomodori d’Ortì, spezie orientali, patate di Sant’Eufemia, lettere dei parenti americani, rosmarino del vaso di coccio.
C’era un pane sacro, bianco bianco, rotondo e intrecciato di nastri rossi, che era il centro della tavola, della casa e della vita: Natale originava da un punto invisibile dentro il centro del suo centro, e cresceva piano piano, zitto sotto il panno bianco, verde e pieno di aghi, rosso e dorato, di vetro sfoglia mandorle e morte.
Natale sparava colpi in aria, coi proiettili veri e la polvere da sparo, perché la festa è feroce come la carestia e come l’abbondanza. Gli angeli se ne volavano lontano, le piume sporche di cordite, le vesti arruffate, i becchi d’aquila adunchi a dividere l’aria fredda dello Stretto.
Natale si concludeva lasciando la tavola piena e disfatta, perché passassero i morti dopo i vivi, e la festa, con la sua allegria sacra e digrignata, si trasmettesse da un mondo all’altro (perché c’era sempre il Natale in controluce degli assenti, i posti vuoti che la casa nascondeva dilatando i suoi spazi, i coperti, le sedute dei divani, sbattendo forte le porcellane e, ogni tanto, sacrificando agli dei capricciosi che abitano i battiscopa, i focolari e le dispense un pezzo del servizio buono).
La casa li ha conservati tutti, i Natali, e uno dentro l’altro io li tiro fuori dalla carta velina, me li metto attorno e li appendo ai rami della casa, che è un albero e una grotta, e porta ogni anno, ogni istante, una nascita che volge in morte, da sempre, per sempre.
sto cucinando ricette di famiglia e ricordi, ma ho anche ritagli di giornale, sapori d’altre vite, mai sentiti dalla casa, e frutti australi difficili da sbucciare. voglio un Natale meticcio, confuso, sottosopra. voglio un Natale che non si senta obbligato a mangiare tutto, e a farsi piacere i regali. voglio un Natale come siamo noi, cori per voce sola, qui e altrove, veri e un po’ finti, ma che importa. io vi voglio bene – tutti quanti leggete e mi scrivete a fianco – anche quando non me lo chiede nessuno, nemmeno io.