Come spadaccini, come pellegrini, come comete, come calciatori delle nazionali convocate in Sudafrica ci siamo presentati puntuali all’appuntamento con Ortigia, la luna, il castello, il mare, il tango (non necessariamente in quest’ordine).
E, non so come dirvi, ma c’è sempre qualcosa di vecchio e qualcosa di nuovo, qualcosa di irreparabilmente nostalgico e qualcosa di smagliante, in questi appuntamenti da un anno all’altro, col tango che è sempre lo stesso e sempre rigenerato, come se fosse eternamente giovane e potesse rendere anche noi – per frammenti, istanti, sguardi, abbracci – giovani ed eterni come lui.
Il Mundial
In realtà, le squadre che s’affrontano perpetuamente sul campo della milonga sono i conduttori e i seguidori (non esattamente, non sempre, non comunque gli uomini e le donne), i titolari e le riserve, gli attaccanti e i difensori, i nuevisti e i milongueri, i professionisti e i dilettanti, gli utili e i dilettevoli.
Dunque le Nazionali erano pronte a bordocampo, e allacciavano gli scarpini. Anche il pubblico era pronto, con le sue vuvuzele e l’occhio fino a cogliere ogni fuorigioco, ogni gancho di rigore.
Perché, tra l’altro, una delle cose più singolari della milonga è che i giocatori e il pubblico coincidono: guardare è parte del gioco. Così facevamo riscaldamento, perché la panchina è lunga e non sai mai quando ti toccherà guardare o giocare, e devi tenerti pronto.
Il campo, stavolta, era stato allestito nel piazzale d’ingresso del Castello, che restava sbarrato ma s’allungava davanti a noi, sui suoi basamenti di pietra sprofondati nelle radici del mare d’Ortigia, di cui da secoli è il muso armato.
Al fischio d’inizio qualcuno mormorò “partiti”, e cominciò il Mondiale del Tango: girone alla porteña, con ripescaggio e finalissima collettiva, alle sei del mattino, nell’alba dalle dita di rosa che fa fiorire la pietra di Ortigia e scatena stormi di colombe marinare nel suo cielo spalancato.
Chi ha vinto? Beh, come al solito tutti Perché il tango ha in se stesso la sua ricompensa e la sua vittoria. E la luna, la luna splendeva quasi come una coppa del mondo.
Fenomenologia della Mirada
Se dovessi acclarare che la mirada non funziona, credo che per lo choc lascerei il tango e mi darei al merengue.
Se dovessi acclarare che, a mia insaputa, una mirada m’ha colpita ed è affondata nel mare dell’indifferenza, mi ritirerei a tanda privata.
Se dovessi acclarare che qualcuno, per trarne un qualche vantaggio, m’ha mirada e s’è cabeceato da solo, non esiterei a sporgere denuncia alla magistratura tanguera.
In realtà la mirada è uno strumento potente, con un raggio d’azione spaventoso, nello spazio e nel tempo.
Ci sono mirade che cominciano anche il giorno prima. Ci sono mirade a innesco lento, che daranno frutti molto tempo dopo. Ci sono mirade retroverse, e persino retroattive. Ci sono mirade preterintenzionali e mirade dolose. Ci sono mirade di rimbalzo, mirade laterali, mirade in calcio d’angolo, mirade di rimessa dal fondo. E mirade di rigore, a dodici passi da uomo nell’area piccola.
Una mirada m’è riuscita dalla vetrina d’un ristorante: quel tipo tre ore dopo m’ha invitata. Dopotutto, in quella frazione di secondo avevamo provato un sacco d’abbracci, che restavano nell’aria, lì attorno, impazienti d’essere chiusi e compiuti.
La mirada è un riconoscimento istantaneo, una dichiarazione d’intenti, un compromesso, un manifesto programmatico. E non è affatto vero che la fa l'uomo, e la donna può solo cabecear. Come in tutto il resto della vita, la mirada te la devi seminare, concimare e zappuliare da sola, se vuoi che lui abbia l'illusione di produrla, come nuova, apposta per te. Dopotutto, gli uomini vivono di convinzioni, lo sappiamo fin da piccole, ed è meglio lasciargliele tutte.
Io, comunque, l'ho scoperto tardivamente, proprio in questo festival, attraversando la spaventosa escursione termica d'Ortigia, che è africana di giorno e alpina di notte, coerente come una luna con le sue due metà di fuoco e di gelo, di solitudine e d'abbraccio, di musica e di silenzio.
Io, agnella e allevata in un protettorato milonguero dove siamo in tutto quaranta e tra noi non c'è nemmeno più bisogno di guardarci – che c'abbiamo la mirada telepatica o sonnambula o semiautomatica – non mi sognavo nemmeno di fare qualcosa che non fosse la mia quieta attesa a bordocampo, nel mio scialletto da zia, col tacco che s'agitava nervoso a ogni milonga sprecata. Accanto a me, cento altre donne, bionde more rosse giovani vecchie brave bravissime così così, aspettavano allo stesso modo, gli occhi fissi sulla ronda dove a intervalli regolari passavano sempre le stesse (la greca col profilo greco, la manga, la tatuata, l'optical, l'indiscutibile, l'imponderabile, la foulardata, la sinuosa, la sorellastra di cenerentola, la cenerentola). Dietro di noi, in un altro cerchio mobile, i maschi andavano e venivano come lupi, scrutando il buio e le sedie, sforzando gli occhi e la memoria, prendendo decisioni e ripensandoci.
E lì stava l'incaglio.
Sarebbe bastato così poco.
Sarebbe bastato voltarsi, e guardarsi attorno, e incrociare uno sguardo e sorridere come per dire: io non ti dirò mai di no. Cosa verissima, per giunta. E non perché, dopo un paio d'ore all'addiaccio, una ballerina direbbe sì persino a un sarchiapone, persino a un Sor Pampurio, persino a un papi. Ma perché sì (il tango è una tautologia, ma solo quando è fatto davvero bene).
Il lato b della mirada me lo hanno svelato i compagnucci di merende, tangueri rifiniti che pure m'hanno confidato le loro angosce da rifiuto anticipatorio, la loro ansia da presentazione, le loro palpitazioni virili che mai, mai avrei sospettato: sotto le camicie da diabolik batte un cuore.
Forte della mia inchiesta – una specie di Rapporto Kinsey tanguero – e dopo un apposito forum al tavolo di colazione del mio B&B (tema del giorno: Perché non m'invitano? Forse perché non sono di Tallin?), son approdata in milonga con tutto un piano strategico di fibre ottiche.
Non ci crederete, ma ha funzionato.
Ho lanciato mirade traccianti che nemmeno a Bagdad la notte dell'attacco americano. Lo scialletto da zia è rimasto sulla sedia, da solo, fino all'alba.
La tanda che non ballammo
Con l’età, s’impara ad apprezzare il tango che non ballammo, a farne una milonga-ombra con una sua qualche elegiaca dolcezza.
Quel Fresedo, caro R., era nostro. E la milonga di Donato, così soavemente irresistibile, resta lì in pista ad aspettarci, P. Noi ci siamo persi tra l'onda della folla, G. , ma sarebbe stato molto bello incontrarsi. Quel tango perduto all’alba, G., non è perduto: sarà toccato a qualcun altro, forse persino al mare.
Julio e la tecnica donne
Quella la dovevo proprio fare, anche in stato di narcolessia grave(era alle 11 del mattino, quando sono svegli solo i principianti, e nemmeno tutti): la lezione di tecnica donne con Julio Balmaceda.
Tutte in calzini, compreso lui, che ci spiega serio &ld
quo;che lui sa cosa vuole da una donna”. Almeno qualcuno lo sa. E la cosa si vede pure dal buonumore tonante che anima lui e la moglie, la dolce Corina cara a Giunone, esempio vivente di come il tango smaterializzi e aggiusti la gravità addosso.
Insomma, Julio vuole il bacino senziente, i passi che non cadono su se stessi, il giro che non è un quadrato camuffato. Vuole farci capire quando spingere sul tacco e quando sollevarci da terra.
Vuole ridere con la sua risata che riempie una stanza, e spaventa i gabbiani, fuori.
L’angolino del kitsch
Avviso: questo è un post buonista e quasi veltroniano, dal momento che ne abbiamo più che abbastanza, nel tango, di disprezzatori e ironizzatori professionisti. Noialtri mediocri ballerini abbiamo diritto alla milonga quanto qualsiasi tarantolato sopraffino, e lo rivendichiamo tutto, nel nome della democrazia meticcia del tango e dell’Internazionale dell’abbraccio, che significa anzitutto accoglienza e ascolto. (fine del siparietto etico)
Purtuttavia, poiché il tango ha anche un suo ineliminabile, stupendo lato kitsch e trash, occorrerà pure onorarlo.
Speciali ringraziamenti, quindi, alla ValentinaCrepax in tutù da dark side of Giselle, che ha allietato la nostra panchina (oltre che scientificamente dimostrato che il tulle inamidato è compatibile con la ronda);
alla giapponesina manga vestita da sorella maggiore di Pucca che si è lanciata (anzi, tecnicamente è stata lanciata) in riuscitissime imitazioni dell’alabarda spaziale;
a tutte le portatrici sane di fiorato pesante;
agli irriducibili del pannolone alla turca (sì, siamo sdegnosi e prevenuti, ma nella stessa città dove c’è un Caravaggio, un numero imprecisato di cancellate e facciate barocche e persino un teatro greco come nuovo non è ammissibile lo scempio estetico. Andatele a fare a Las Vegas, o a Sharm El Sheik, queste cose).
La tanda pericolosa
C’è sempre, in agguato, una tanda pericolosa. Come la mandorla amara nascosta nel cartoccio, come l’aspide nell’erba, come la caramella al cerume nel pacco di “Millegusti più uno” di Hogwarts, come l’editoriale di Minzolini durante il pranzo.
La tanda pericolosa non la riconosci mai al suo manifestarsi: di solito lui sembra innocuo, gentile, persino ergonomico. Tu ti affidi, col secolare addestramento della seguidora, e al primo semigiro pensi che vada tutto bene, state scivolando nel vostro corridoio senza nemmeno sfiorare le altre coppie, sistemi solari che girano attorno a se stessi e dentro la ronda, nella complessa cosmologia tolemaico-copernicana della milonga (sì, il tango è un ossimoro, ma solo quando è fatto davvero bene).
E invece no.
Il pericolo viene dall’interno.
Lo capisci quando lui scientificamente – persino con una certa eleganza – costruisce uno sgambetto, e tu lo guardi come i prigionieri dei pirati dovevano guardare capitan Uncino prima di tuffarsi dalla passerella e scomparire tra le onde. Lo eviti miracolosamente, scambiando i pesi chissà con che cosa, e sentendoti sopravvissuta, quando lui lo fa di nuovo, e ancora, e capisci che è una lotta all’ultimo sangue, e ne resterà soltanto uno. Lui.
Che, per giunta, a un certo punto comincia a usarti come scudo umano, cercando di fare in modo che qualsiasi cosa si muova negli immediati dintorni (una parada, un voleo alto, un gancho, un alito d’aglio, un insulto pesante) ti colpisca. Ed è pure bravo: ti centrano quasi tutti.
A quel punto diventa un fatto etico: salvare la dignità oppure sopravvivere. Scegli tu.
(per la cronaca, io non pratico la tanda interrupta, la mia religione me lo impedisce, quindi m’è toccato subire fino alla fine, riportando ferite laceroconfuse che ancora mi segnano caviglie e orgullo. Ma almeno so che andrò in paradiso, e sarà come lo Zen, e allora fuggirò all'inferno… ).
Una emotion
Lo so, non è corretto da dire, ma questo post è politicamente scorretto, e quindi. Quindi l’abbraccio più bello è stato con piazza Duomo, alle sei del mattino. Eravamo sole, io e lei. Lei era d’un color rosa ambrosia che fluiva da dentro la pietra, perché a Ortigia la pietra è carne, come le foglie, mentre i muri sono corteccia, il legno è mare secco, il ferro è acqua, la carne è calcare, pomice, ossidiana, marmo, roccia. Così io, di roccia friabile dopo ore e ore di milonga, ne ho toccato la pelle rosata, la dolcezza del tufo chiaro, la consistenza tiepida dei marmi, persino le volute dei balconi che rivaleggiavano con le ali delle colombe-gabbiani-rondini-aquilereali-cigni che volavano in picchiata per dissipare tutte le ombre della notte.
Ci siamo abbracciate e abbiamo ballato, allo stridìo in quattro quarti delle colombe pazze che svegliavano i mondi.
Sor Pampurio, ultimo atto
Che finale sarebbe, senza uno sguardo a Sor Pampurio? Ma solo per dirvi, miei affezionati quindici lettori, che non ci occuperemo mai più di lui. Come un Mastella, come un Lippii, come uno Scajola egli – probabilmente a sua insaputa – è uscito di scena. Al Festivallo era l’ombra di se stesso, porello: persino le transenne si notavano più di lui…
Niente giannizzeri ottomani, niente coorti pretoriane, niente stuoli di fanciulle col passaporto di Kiev. Niente pubblici ringraziamenti. E nemmeno una quebrada che facesse fermare la ronda e gli orologi.
Lo celebriamo qui per l’ultima volta, ma sappiate che ci mancherà.
Tempi di crisi e di recessione
Anche Pampurio è in questa situazione:
Al Festivallo presso il bel castello
È spento e sottotono, poverello
Nessuna lituana, russa, lèttone, estòne
Né pretoriani, né liste di proscrizione
Quando va in pista nessuno più l’ammira
Sulla ronda del tramonto si rigira…
E’ l’ombra di se stesso, ormai uno straccio
E che abbia pure chiuso un po’ l’abbraccio?
Sarà stato Tremonti, o forse Bondi
Nel suo provvedimento mangia-enti:
Lo spettacolo-Pampurio – ha decretato
Come la Scala dev’essere tagliato…
Troviamogli una russa, ed anche in fretta
Facciamo un Pampuriothon, una colletta
Che non si trovi in pista, con disdetta
Con una bionda di… Caltanissetta!
Arrivederci al prossimo anno.
(ps: Bellissima foto di MicMac – il poliedrico Michele Maccarrone, che il tango lo fa ballare e poi lo mette in posa ee ce lo restituisce sotto forma d'un'altra arte – in cui si percepisce la natura di ala dimezzata dell'abbraccio. E ci son anche la luce e il mare e le rocce di Siracusa, che entravano a tempo dentro gli abbracci, e nell'alma)
Sono leggermente disturbata ma basta poco per ricondurmi alla discarica in cui ultimamente nuoto, acqua rosa con lunghi filamenti urticanti.Mi diverte molto leggerti, senza moderazione. Già devo moderare il cibo ed è faticoso.Un sorriso da dietro l'angolo, proprio prima della punta del FaroPatrizia
Cara amica, con grandissimo piacere e anche un bè era ora ho ritrovato brioches e la tua bella prosa sull'Unità. ( che leggo sempre )
Ma niente firma.
Spero non sia stato un episodio…
Mi fa molto piacere! Sì, l'Unità ha deciso di concedermi qualche spazio nel nuovo inserto estivo. Sono onorata ma anche terrorizzata.Speriamo bene.Un abbraccio.Cara Hanna, siamo smodate per vocazione. Per fortuna, aggiungo.(ps: dietro l'angolo? ma davvero? io sono proprio a Faro, oggi)