La Poesia era seduta nell’anticamera del mio veterinario. Era una signora di sessanta o seicento anni, coi capelli gialli, la gonna sghemba e un pellicciotto sintetico, fucsia. Portava al guinzaglio una cockerina nera di nome Pinky, con un cappottino scozzese e una malattia oftalmica. Mi raccontava, soffiando per un vecchio enfisema, che a casa ha altri quattordici cani, cinque gatti e due porcellini d’India. Le ho chiesto s’avesse un giardino, m’ha detto, limpida: "No. Ho trasformato la casa in un canile, e io vivo nel canile, con loro". La cagnolina Pinky sembrava che annuisse, o forse era l’artrite.
La veterinaria, una ragazza sottile con un nome bruno, m’ha detto poi che la signora raccoglie creature abbandonate, con le quali probabilmente s’identifica. Lì curano gratis gli animali della Poesia, li vaccinano e li sterilizzano, secondo un patto segreto che qualche volta, ma solo qualche volta, stringe la medicina con altre forme d’umanità. A volte raccolgono i randagi delle isole, li curano, li sterilizzano e li liberano di nuovo. La Poesia prova a trattenerli tutti, nel vasto canile del suo cuore, ma non sempre glielo lasciano fare.
Per esempio con Colosso. Non è un cane, è uno scherzo della natura. La madre, una cagnotta bastarda dai geni indecifrabili, di taglia media, era molto incinta, e un veterinario qualsiasi – uno di quelli che esercitano con gli animali perché con gli uomini non potrebbero sostenere le spese legali dei risarcimenti - tentò di farla abortire. Gli embrioni erano sei, e cinque morirono. Colosso ereditò lo spazio e la forza di tutti e cinque. Nacque così spaventoso che l’abbandonarono subito, solo perché ebbero paura di sopprimerlo.
La Poesia passava di là, per caso o forse per istinto – perché la Poesia sente le creature abbandonate – e lo raccolse, già smisurato, solo per vederlo crescere ancora, e curarlo in tutte le maldestre manifestazioni del suo gigantismo e del suo disadattamento a vivere.
Si lisciava il pellicciotto rosa, la Poesia, raccontandomi con la sua voce rasposa di Colosso e di Yoghi e di Pinky e degli altri undici cani e cinque gatti e due porcellini d’India.
Fuori, la primavera premeva contro i vetri, mischiata alla grandine a grossi pezzi. In Giappone le folle si radunavano sotto i ciliegi, preoccupate per i fiori. Lì la Poesia sono i primi cinque fiori – ma devono essere almeno cinque – d’un particolare albero del centro di Tokyo, perché la "sakura zensen" la linea di fioritura dei ciliegi, l’aspettano ogni anno, per andare a guardare gli alberi e meditare (che poi s’incazzano se il Servizio meteorologico Nazionale non prevede la data esatta e pure l’ora, che non possono perdere tutta una giornata di lavoro in ufficio: è quello che gli manca, o gli eccede, per essere un popolo davvero poetico). La Poesia si distende come una linea, come una corolla, toccando i ciliegi uno per uno, e tutti con gli occhi in alto, a commentare, indicarsi i rami, sentirsi intimamente soddisfatti.
I ciliegi affollavano, con la loro linea superba, il canile della Poesia, festeggiati da Colosso, Pinky, i randagi cani e gatti, la grandine, la signora coi capelli gialli, la veterinaria, io e la mia gatta principessa che non mi rivolgeva la parola perché l’avevo portata a tradimento sotto il bisturi. La poesia era una linea immaginaria che si propagava con la velocità dell’equinozio, in un equilibrio istantaneo e impossibile – perché la luce sale e riscende lungo l’anno, s’accorcia e s’allunga e proietta soprattutto ombre. Forse è un immenso canile, sovrastato da alberi in fiore. O forse no.
Il 21, equinozio di primavera, è stata la Giornata mondiale della poesia. Io quel giorno la poesia l’avevo a fianco, nella sala d’aspetto della veterinaria, e lo sapevo, pure. Una mia amica dice che ormai la poesia sta dovunque, e non solo nei libri, e il problema è riuscire a leggerla. Probabilmente è sempre stato così. E dunque bisogna esercitarsi a leggere le sale d’aspetto, i ciliegi, i cani e i gatti, i nomi dei veterinari, le nuvole, la grandine, i gradini, le rughe, i cappottini scozzesi e i pellicciotti fucsia. Chissà.