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giggino giggetto

Resteranno gli anni di Giggino. L’epopea del bibitaro divenuto principe. Il romanzo del giovane povero (di talenti) proiettato ai vertici del Paese, a capo d’un movimento politico, a discutere di governi e premierati, a dettare condizioni e interloquire col Capo dello Stato. La misteriosa congiunzione astrale, anzi proprio l’allineamento dei pianeti che ha consentito a un giovanotto senza doti, cultura, qualità, competenze, esperienza, carattere di diventare un politico di primo piano senza nemmeno un minimo di gavetta, di apprendiStato, di lettura di bignamini istituzionali. Un’ascesa che solo la letteratura potrà davvero raccontare, come si raccontano le imprese leggendarie e le creature inspiegabili.

Non fraintendete: l’essere bibitaro, in sé, sarebbe persino una qualità. Dopotutto, i padri costituenti sognavano un Parlamento affollato di bibitari, lavandaie, minatori: l’epica della costruzione di sé e del Paese malgrado le condizioni di partenza appartiene non solo alla generazione dei nostri avi, ma proprio allo spirito della Costituzione, all’edificazione corretta della democrazia rappresentativa.  Però un passo necessario, in questo percorso luminoso, sarebbero lo studio e l’acquisizione di competenze, unica via di riscatto da condizioni sociali o personali sfavorite. Dai campi e dalle officine, e certamente anche dallo stadio San Paolo, agli scranni più alti, ma studiando. Questo è il passaggio che la storia di Giggino il Miracolato salta a piè pari.

E infatti eccolo lì, a capo d’un movimento che persino teorizza l’uno vale uno, e per cui l’assenza di competenze è un vanto e una garanzia, così come il disprezzo per le prassi, i galatei, le forme, i copioni istituzionali che si ignorano, si vilipendono, si ascrivono, con franca superbia, al mondo dei compromessi e degli “inciuci” che si vuole, legittimamente, sterminare. Salvo non sapere bene dove collocarlo e che aspetto dar loro.

Manco a dirlo, il prode Giggino si trova coinvolto nel momento di maggior confusione, di aperto caos istituzionale: colonna d’un governo e ministro del Lavoro (e già questo avrebbe dovuto toglierci il sonno), capo d’un movimento che in Parlamento ha il 32%, vicepremier d’un premier che ha voluto imporre proprio perché era terzo e non accostabile ad alcuna forza politica, un tecnico ma senza dire la parola “tecnico” (che le folle si turbano e sentono odore di competenza, quindi di corruzione a prescindere, secondo i dettami del Sacro Blogghe), un prestanome e prestafaccia che coprisse la realtà d’un governo di ricatto e squilibrio. E poi membro d’una coppia scoppiata, tradito dal consorte di vicepremierato, colpito e affondato con solo un gemito, uno sguardo ferito nel volto d’eterno ragazzino sbigottito, uno a cui viene voglia di prendere la mano e dire: “Siediti, che ti spiego io cosa sta succedendo”, e dargli un bicchiere di latte con la cannuccia.

Ora dicono sia asserragliato nel bunker, a ripetersi i suoi venti punti per non scordarli, a contare e ricontare i successi di 14 mesi di sgoverno i cui nodi stanno per venire al pettine (ed è forse questo il motivo per cui l’ex sodale e collega di vicepremierato, il Ministro della Giustizia Sommaria, inventore dei porti chiusi e delle libere moto d’acqua in libero Papeete, s’è dato a una fuga scomposta).

Chissà dove finirà l’epopea di Giggino l’Inconsapevole, Giggino l’Immodificabile, Giggino che pure come personaggio da romanzo ha il problema obiettivo di cominciare e finire allo stesso modo, senza che le circostanze riescano a cambiarlo. Chissà dove arriverà – Gigino a Palazzo Chigi? Gigino al Quirinale? Gigino imperatore della Galassia? – e cosa riuscirà  a combinare, nel frattempo. Un giorno, forse sarà la fantascienza a raccontare questi momenti, perché non vadano perduti come lacrime nella pioggia.

Dark

Jonas prima e dopo

Lo so, da un’orfana di Gomorra e Game of Thrones non accettate consigli, ma questo, vi prego, tenetelo in considerazione: Dark, due stagioni (la seconda appena rilasciata) su Netflix.
Andateci diritti, senza leggere nulla prima: sono decisamente fuorvianti le etichette tipo SF, thriller, (diocenescampi) fantasy. Sì, parla dei viaggi nel tempo, ma quelli privatissimi, quelli dentro le nostre private ossessioni, dentro i motivi per cui costruiamo la nostra vita in un modo piuttosto che in un altro che pure sembrava più giusto, più vero, a volte persino più facile. Sì, parla di una comunità (tedesca, per giunta, quella di Winden: dopo “Les Revenants” mi è apparsa chiara la riserva di letterarietà, di narratività pura che la vecchia Europa possiede. Altro che riserve auree! Potremmo nutrire di storie tutto il mondo, per l’eternità) piccola, chiusa da un bosco o meglio chiusa in un bosco che circonda una centrale nucleare, e ogni attraversamento passa dal bosco. Compresi quelli nel tempo, che qui, finalmente, non sono trionfalistiche conquiste scientifiche cromate e lucenti: sono piuttosto percorsi in cunicoli di terra, grotte segrete, al massimo ingranaggi da vecchi orologiai, lancette e rotelle e la buona vecchia meccanica che fa un baffo, un baffo umbertino, all’elettronica.

All’inizio sono pochi, spersi, confusi: i viaggiatori loro malgrado, quelli che restano intrappolati in un tempo che non è il loro. La periodicità è 33 anni: dal 2019 l’ingresso obbligato sono gli anni Ottanta, quelli delle spalline, dei capelli spezzati e cotonati, delle band. E presto vediamo i personaggi, tutti i personaggi, quelli che viaggiano e quelli che non concepiscono nemmeno una cosa del genere, nella loro unica e doppia identità: com’erano, come sono diventati. Le coppie impensabili, le coppie inevitabili, le traiettorie impossibili, i rancori e gli amori che finiscono per assomigliarsi, e non solo covano dentro ciascuno, ma sono la vera macchina del tempo, quella che il tempo lo azzera, perché non c’è niente di più persistente e uguale a se stesso di un’ossessione. Hannah che ama Ulrich, ma il suo amore è una vendetta; Catarina che ama i suoi figli, ma il suo amore è una guerra; Jonas che ama suo padre, e non abbastanza se stesso, mai; i semplici come Magnus, i riprovevoli come Helge, i caritatevoli come Ines, i coriacei come Charlotte, i feriti come Mikkel. E a un certo punto le linee temporali si sdoppiano e si triplicano, i personaggi incontrano se stessi (il vecchio paradosso del tempo è agito con la mano di un Eschilo: le ossessioni di tutti ricadono su tutti, i padri e i figli sono la medesima cosa, a volte letteralmente…), cercano di impedirsi cose e per questo le facilitano, si consegnano lettere, oggetti, rivelazioni (non lo facciamo ogni volta che riceviamo da noi stessi un segno, ritroviamo cose che ci appartenevano, recuperiamo pezzi di noi? Non ci ritroviamo, a volte, dopo aver scavato a testa bassa nei cunicoli in un viaggio impossibile dentro una grotta spaventosa?).
E il bello è che tutto ciò – nella sua complessità e nel suo ardimento – è davvero trascurabile davanti all’obiettiva bellezza perturbante di questa intuizione: ogni vita è per sempre, ogni attimo è il baricentro del tempo. I nostri sentimenti vivono e agiscono, le sensazioni non vanno perdute, gli sbagli sono inevitabili, ma tanto la verità cambia continuamente di posto, oppure striscia nei cunicoli sotto le grotte, e quello che 33 anni prima è sacrosanto e limpido diventa oscuro e inconfessabile 33 anni dopo, il gesto eroico diventa meschino, lo slancio amoroso si inacidisce in vendetta, la generosità muta in egoismo, solo di scala più vasta. Eppure la verità tutta umana della nostra cecità, della buona fede dei nostri cuori, dello sforzo che facciamo ogni giorno resta intatta.
Sicché vedremo alcuni morire di caparbietà e ricerca, presi per folli e uccisi in un tempo diverso dal loro, dove però continuano a vivere come stimati cittadini, o silenziosi sofferenti. La ricerca di alcuni verrà premiata da un nuovo passo avanti, sia pure verso la rovina; quella di altri sarà interrotta. Ma è il gioco della vita e della morte, il solito.
E’ l’altro grande – o forse il solo – paradosso del tempo: tutto muta e tutto persiste.

Guardatelo, per favore.

tyrion

Ho un debole per gli storpi, i bastardi e le cose spezzate”. E’ questa l’epigrafe corretta del finale di tutti i finali di Game of Thrones, il finale che non aggiusta le cose spezzate, anzi ne rompe alcune altre, e non redime alcuni bastardi, mentre ad altri (bastardi, oggettivamente bastardi, e non parlo di sangue) fa sorridere la fortuna. Il finale che incorona il più spezzato di tutti, mentre manda un altro spezzato (diversamente spezzato) ai confini del mondo, in quel Grande Nord che ora è libero, dopo la morte della morte, anzi è l’unico luogo davvero libero di Westeros.


Noi lo volevamo tutti, il Trono di Spade: i veri pretendenti eravamo noi, affacciati nell’arena da gladiatori dove per otto stagioni si sono affrontati tutti, gli innocenti e i colpevoli, i deboli e i forti, i vivi e i morti. Eravamo affascinati, noi che giocavamo il gioco del Trono assieme a loro: tenevamo per Daenerys, perché chi distrugge le catene (in primo luogo le sue) ci prende il cuore, sempre; tenevamo per Tyrion, perché aveva quella qualità unica, nel mondo di Westeros: sopravvivere; tenevamo per Arya e per Sansa, che avevano attraversato il peggio del loro mondo per svincolarsi dal loro destino di “uccelletto” coi capelli acconciati alla moda e “piccola peste” che nessuno prende sul serio; tenevamo per Theon e Jaime nel loro percorso di riabilitazione di Cattivisti Anonimi (dimenticando che siamo umani e a volte – diceva sempre Tyrion, la voce profonda e profetica – “migliorarsi è pericoloso”, e ci sentiamo traditi quando Jaime volta le spalle a Brienne d’Arco e torna da Cersei, perché alla fine tutti tornano al punto di partenza, se glielo dice il cuore); tenevamo per Jon Snow, il puro, il diritto Jon Snow, l’uomo d’onore che si sente davvero legato dai giuramenti, il vero Stark (e qui la disputa tra innatisti e comportamentisti segnerebbe una svolta: puoi avere tutto il sangue Targaryen che vuoi, e cavalcare i draghi e ruggire in battaglia, ma se sei stato cresciuto in casa Stark ti farai uccidere prima di commettere un’ingiustizia)(il problema, semmai, è comprendere cosa sia un’ingiustizia: sulla confusione etica e i limiti del potere assoluto, e la catena d’ingiustizie necessaria a fabbricare una giustizia, in fondo, è centrata tutta quest’ultima puntata).

Arriveranno alla fine intatti – o diversamente intatti – solo in pochi: tutti i personaggi comici (perché, da Euripide in qui, questa è la legge della narrativa), che siano Sam (che diventa Gran Maestro, come era giusto, e anche padre e marito felice, come non sembrava possibile, visto che era nato in una famiglia nazista ed era stato deportato al Castello Nero, dove sarebbe morto di bullismo e disperazione), o Pod (Sir Pod), o Tormund (il nuovo leader del Popolo libero, che nell’ultima scena sciamava per il bosco come le Troiane in scena a Siracusa nel “bosco morto”: gli atti di rinascita si somigliano tutti, e non sono un finale tragico, anche se hai il cuore devastato dal lutto e la cenere nei capelli), o persino i mercenari e contrabbandieri Bronn e Davos, che riassumono la vera parabola di tutti i nobili del mondo: tagliagole più furbi che a un certo punto si ripuliscono la fedina e s’inventano uno stemma (e il concilio finale è, appunto, anticlimax che reintroduce l’elemento comico, depotenzia il tragico, lo disinnesca in direzione antieroica).

A regnare sarà uno spezzato, uno distaccato dal potere, uno sterile, uno che non avrà l’ossessione di conservare il patrimonio e la discendenza, e forse sarà davvero l’inizio di un mondo nuovo, un mondo in cui nessuno di noi (e parlo di me, di te che leggi, di tutti quelli che da stanotte scrivono in ogni parte del mondo, incazzati o appagati) potrà sedere sul Trono di Spade.

Il Trono di Spade è l’anello di Frodo: averlo vuol dire perdersi, è impossibile usarlo per fare il Bene. Noi stessi ne siamo stati disarcionati, e abbiamo accolto con doloroso stupore – ma sentendo che era giusto così, che era necessario – il fuoco di Drogon che se la prende con il vero colpevole della morte di sua madre: il potere forgiato in forma di Trono di Spade, monumento definitivo, ipostasi d’acciaio della sconfitta (e non della vittoria).

La rinuncia è la chiave: vince solo chi rinuncia. Come Bilbo, come Frodo, come Jon, come Bran, che in fondo ha rinunciato a una vita umana. E, per favore, non ripetete la sciocchezza che non ha senso che rifiutasse di fare il Lord di Grande Inverno per poi accettare di fare il Sovrano dei Sei Regni: il potere non gli interessa, come non gli interessa più alcuna cosa umana, ma sorvegliare il potere del potere sì. Essere il garante supremo di un mondo senza più il Trono di Spade.

Come il nostro, da oggi.

 

gameuno

Ebbene sì, dopo quattro giorni di attenta lettura della rete, dico la mia sulla puntata 3 della stagione 8 di Game of Thrones, che, se non altro, è destinata a rimanere come quella che ha prodotto la più alta densità di post, messaggi, recensioni e meme della storia, gloriosa, della serie.

Lo dico subito: mi è piaciuta, certamente, ma non come mi era piaciuto, fin qui, tutto o quasi l’universo Got. Mi è piaciuta, e sto per scrivere l’avverbio chiave, convenzionalmente. Come mi sono piaciute centinaia di altre cose, e non nel modo specialissimo in cui mi piaceva una serie che aveva – prima di tutto – il potere immenso di sovvertire ogni regola narrativa, mettere in crisi ogni certezza, ogni legame sentimentale coi personaggi. C’è a mio avviso solo un’altra serie tv a cui riconosco lo stesso passo ardito e lo stesso potenziale “distruttivo”: Gomorra. Ho sempre detto che Gomorra è Got senza draghi, e oggi che, peraltro, trasmesse dallo stesso canale e pubblicizzate assieme, conoscono una stranissima sovrapposizione (e non vi dico la sovrapposizione di trame ed eventi, che ha dello stupefacente), le chiamo scherzando Gotmorra, ma non scherzo granché.

La cosa che mi aveva avvinta, di Got, è la potenza con cui sono stati scolpiti i personaggi (e qui c’è poco da fare, l’impianto è quello del ciccione maledetto, George R.R. Martin, che il Dio della Luce lo abbia in gloria e Ciro Di Marzio lo protegga), le loro motivazioni umane troppo umane che l’elemento magico non sovverte e sovrasta mai ma cerca, maldestramente a volte, di servire, sempre insidiato dall’errore e dalla cecità umana (e questo ne fa una narrazione sul potere e non sul potere della magia). Non è nemmeno la lotta dei buoni contro i cattivi (semmai, come in Gomorra, la lotta dei cattivissimi contro i pessimi), ma il confronto di personalità vaste, con zone d’ombra e di luce che articolano ulteriormente il confine tra giusto e ingiusto, ragioni di stato e stati della mente, psicopatologie individuali e tabù collettivi, politica e religione. Dove si apprezza, assieme, l’appartenenza eppure lo scarto, il riconoscimento eppure il sovvertimento, l’adesione condivisa eppure la capacità di deviare verso un percorso tutto individuale.

Ci sono personaggi che evadono dai recinti e altri che dopo lunghi giri tornano a casa, ma il nostos è esso stesso un’epica, e non si torna mai a Itaca come si era partiti: i ritorni di Jon Snow, di Arya, di Jorah, della stessa Daenerys sono tutti diversi tra loro, così come il tornare sui loro passi di tanti altri, da Jaime a Theon (il Gioco del trono comincia a Grande Inverno e l’ultima stagione ricomincia da lì – anche dichiaratamente, con precisi rimandi al pilot).

C’è un femminile potente ma schiavizzato, che trova – pagandole a prezzi sempre molto alti – originali forme di emancipazione dal maschile tossico e attorcigliato sul possesso, del corpo del trono del regno, e quando non lo fa e semplicemente lo replica cade dentro lo stesso buco nero, la stessa vorace Porta della Luna che tutto macina e digerisce e fa scomparire. C’è la divisione verticale del mondo tra ricchi e poveri, nobili e ignobili, che marca profondamente le dinamiche tra individui.

Ma tutta questa bella complessità, che si è lentamente stratificata tra le stagioni, ora è davvero a rischio appiattimento, visto che si corre verso una conclusione, che vogliamo sperare non sarà pacificante, ma che ci piacerebbe non fosse solo inutilmente contundente. Vorremmo ancora – siamo abituati male – le modalità dello spiazzamento, della sorpresa perturbante, della meraviglia dolorosa. Cose che, narrativamente, sembrano essersi perse a favore d’una grandiosità indubbia ma un po’ stereotipata. Che per la serie che faceva a pezzi gli stereotipi è un ben triste contrappasso.

Detto ciò, si può serenamente seppellire – come in una cripta – ogni discussione sulla verosimiglianza tattica della battaglia di Grande Inverno: sì, resta una cosa logicamente inspiegabile come un’intera armata dothraki, per giunta fiammeggiante, sia inghiottita in meno di un minuto da un’orda scomposta di morti che poi, comunque, viene impegnata per ore e ore da tutti gli altri (nemmeno con spade flambè). Però volete mettere l’ondata di trepidazione che corre sui volti (compresi i nostri) quando Melisandre “accende” l’armata e poi il tuffo del cuore quando vediamo le luci laggiù spegnersi? Ecco, quella è la risposta: il saliscendi di emozioni. Le discese ardite e le risalite.

Il fatto che, poi, una volta riavutici, ci siamo detti macheccazz, vuol dire, invece, un’altra cosa: bene ma non benissimo, ci avete presi per un minuto circa (appunto, un’unità di misura di armata dothraki accesa) e poi ci avete buttati fuori dalla sospensione dell’incredulità. Tanto che stiamo discutendo forsennatamente da giorni, su punti sui quali non avremo mai una risposta.
Così come il volo di Arya alle spalle del Night King, la sua capacità di camminare tra i morti in silenzio (ma è il rumore, che li attiva? In biblioteca sembra di sì, ma altrove onestamente non è chiaro).
C’è anche, in rete, la teoria che l’altrimenti inspiegabile urlo di Jon Snow al drago zombie sia in realtà un “Go, go, go” ad Arya, non tradotto nei sottotitoli e di fatto sfuggito al 99 per cento degli spettatori (come quasi ogni dettaglio di quella battaglia, persa tra i pixel e per la quale ci vogliono settaggi degli schermi da commissionare direttamente agli ingegneri della Nasa). Ci può stare, certamente, ma se sfugge al 99 per cento di chi guarda forse non è una buona idea.
Non è la vita, cazzo, è una fiction, e le chiediamo di essere congruente e chiara, e lei ce lo deve.

In altre parole: se devi rappresentare il buio, non puoi mettere il set al buio: devi illuminarlo in modo da farci percepire il buio, ma farci vedere che diavolo ci sta succedendo dentro. Lo stesso vale per il caos: l’unico modo di rappresentarlo, è farlo con ordine. E’ il paradosso della rappresentazione che, mi spiace darvi questa notizia, non coincide con la realtà.
(piccola postilla: Stanley Kubrick per girare “Barry Lyndon” usò soprattutto la luce naturale e, per gli interni, le candele, come si usava nel Settecento: ditemi se c’è qualche scena che occorre schiarire…).

gametre

Detto ciò, sì, la puntata non è stata male e ci ha preso, con momenti di vero pathos e malgrado momenti troppo convenzionali. Per dire, magnifica la Mormontina che parte urlando, alta un metro e un bottone, contro il gigante, ma che lo infilzi nell’unico occhio (perché mai poi la doveva portare lassù e guardarla, quando sappiamo che i morti non manifestano alcuna curiosità o interazione col resto del mondo che non sia distruttiva?) è cosa, da Polifemo in qua, davvero abusata.

Ci siamo commossi su Jorah, che cade solo quando la sua regina è salva, e avrebbe resistito ancora chissà quanto per pura forza di volontà (come Beric che sbarra il passo da solo nel corridoio, come Boromir trafitto dagli Uruk-hai); ci siamo commossi su Theon, che quando recupera pienamente la sua parte Stark (e il suo cammino è stato uno dei più drammatici e dolorosi) muore, e muore di slancio e abnegazione; ci siamo commossi allo strano dialogo tra Sansa e Tiryon, che sembrano sull’orlo dell’harakiri e invece, in puro stile Folletto, sgusciano via (ecco, quel dialogo e quel baciamano sono stati un’eco del remoto mondo perduto del ciccione, il Got straniante e bizzarro che conoscevamo e ci aveva catturati).

Ora il mondo magico sembra quasi finito (minchia, una minaccia durata stagioni e stagioni e dissolta così: ci è voluto più impegno per liquidare l’Alto Passero…)(e infatti l’esplosione del tempio e il montaggio della sequenza ci resteranno in mente per sempre, la battaglia di Grande Inverno si può mettere agli atti e dimenticare serenamente), e comincia il regno degli uomini, si torna al vero gioco, il Gioco del Trono: scomparsa Melisandre (ma si può fare qualcosa per recuperare quella collana? Chiedo per un’amica), scomparsi i servitori del Dio della Luce (che a questo punto è contento? Voleva questo? Ha sempre avuto un ufficio stampa di merda, dovremmo consigliargli lo staff di Salvini), scomparsa la minaccia dei morti. Certo, restano le magie di Bran (servirà ancora? Ma sarà solo un oracolo a servizio del potere, ancora del Gioco?), le abilità oscure di  Arya (bellissimo personaggio, forgiato con la luce e l’ombra, assieme luminoso e spaventoso).

Ora quelli terribili sono i vivi: Cersei, che forse è incinta e forse no (con il suo riposizionare ogni volta l’alveare da difendere, facendosi ape regina ma che rinuncia al femminile per incarnare un maschile sadico e atroce come quello che l’ha fatta soffrire e schiavizzata; con il suo senso della famiglia paragonabile a quello di Gomorra, per cui si ama, si tradisce e si uccide la stessa persona, fondando sull’appartenenza reciproca ogni bene e ogni male); Euron, che è della schiatta dei disturbati sadici (linea Joffrey, Ramsay, Robert Arryn) ma almeno sa combattere.

Di nuovo una linea buoni-cattivi che, semplicemente, in Got non esiste: esistono schieramenti, opportunismi, motivazioni, distinguo. I personaggi interamente “positivi” sono pochi, e più opachi degli altri: ogni giusto ha dovuto esercitare molte ingiustizie per difendere la sua giustizia; molti giusti, molti innocenti (penso a Hodor, a Shireen, a Talysa, a tutte le vittime dei sadici) sono stati semplicemente travolti e spazzati via degli ingiusti, senza ragione, senza contrappeso, senza redistribuzione del male. L’innocenza è un lusso che nessuno, a Got (a Gomorra), può permettersi.

gamedue

Sarebbe molto bello se ora non si disperdesse tutto quel malessere, quel senso di ingiustizia e dolore, quella contrizione in cui ci hanno condotti le stagioni migliori di Got (e Gomorra), e ci conducessero a un finale che sì, la produzione ha già annunciato “agrodolce”, ma che speriamo non sia un aroma artificiale con retrogusto di mirtillo. Vogliamo un pasticcio di Frittella, pieno di frattaglie, cotto nel burro e condito di lacrime e spezie amare. Gusto Got, senza retrogusto di redenzione, di giustizia, di fanservice.

 

Amici gomorroici, diciamocelo: la quarta stagione di “Gomorra – La serie” è già fenomenale, col suo sapiente intreccio di arcaico e avveniristico, di feroce e lucido, di locale e globale (lo so, sembrano le definizioni di due cose precise: la mafia e il capitalismo, a volte indistinguibili tra loro).

Siamo oltre la morte di Ciro, che è un punto nel tempo e nello spazio: infatti Genny e Sangue Blu ci tornano in pellegrinaggio, sulla barca, perché questo mondo è costellato di cose sacre, a loro modo. Tipo giuramenti di sangue, vendette, legami: inviolabili, a loro modo. E affascinanti, come può essere affascinante un pitone che fissa un coniglio, o un Genny Savastano col maglioncino di cachemire che in ascensore, dietro le lenti fumè, fissa la bionda Leena, maga della finanza internazionale spregiudicata.

Ci sono ben altri orizzonti, in questa stagione: tanto la terza era claustrofobica, cupa, chiusa in scantinati e angoli ciechi, murata persino nel dialetto più impenetrabile, quanto questa è di vetro e alluminio anodizzato, si spalanca sui parchi londinesi e i panorami di cristallo della City, o anche i bar alla moda e le terrazze eleganti di Bologna. Metà della quarta puntata è in inglese (ma tanto non cambia niente, visto che tre quarti degli spettatori usano i sottotitoli) e stavolta le riprese non sono da sopra ma da sotto, e il mondo appare chiaro e luminoso, con la luce diffusa ed elegante di uno studio di Piccadilly. Dimenticatevi lo squallore delle Vele di Scampia, o gli stucchi napoleonico-psichedelici delle case dei boss: qua ci sono soldi veri, eleganza antica. Ma, come dice Genny, “a merda sta ovunque, sulu che tiene culuri diversi”. Magari grigio perla o rosso regimental o biondo glam.

Così la schianata (sarebbe l’ascesa per noi meridionali) a Londra di Genny – il quale mica vuole cambiare vita (non avrete creduto a tutte le scemenze dei giornali?), ma solo vestito e pettinatura (ed era pure ora che lasciasse la cresta mohicana che portava da quando era tornato dall’Erasmus in Honduras) – che doveva trasformarsi in una epica di sfatta e nella truffa del secolo (con tanto di simil-Banksy che irride i truffati), si rovescia nell’ennesima vittoria del Metodo Savastano: sospetta di tutti, parla poco e osserva molto, ricattali con quello che hanno di più caro, e soprattutto uccidili quando non se lo aspettano. E bye bye, Leena.

Si pensavano, i signori della City, di avere a che fare con quello che obiettivamente Genny sembra: un pitecantropo incapace di esprimersi se non in napoletano gutturale (in effetti, ci accorgiamo, non senza sorpresa, che comprende benissimo l’inglese, ma gli sentiamo dire solo due frasi, tipo “where is my gold?” o “where is the key?”, ma con l’accento secondiglianese), che non saprebbe distinguere un manager vero da un truffatore in doppiopetto. Ma sbagliavano, perché Genny i propri simili li sa riconoscere benissimo, sempre e ovunque (“non è coi curriculum ca si conoscono ‘e persone”). Così, quando il suo “ingegnere” Alberto Resta – inquietante esempio di quella classe di professionisti magari molto abili che fanno da anello di collegamento tra i gruppi criminali e i grandi affari, e sono in effetti dei traduttori simultanei, traducono un mondo in un altro e viceversa (procurano commesse miliardarie, sanno come confezionare un progetto, e poi lasciano che la mano criminale spiani le difficoltà, elimini la concorrenza e soprattutto procuri i capitali) – lo porta negli studi foderati di moquette e boiserie, e interloquisce flautato con gente che ha studiato economia a Oxford, lui non si fa mica incantare. Noi, ci facciamo incantare.

Noi, che abbiamo persino creduto che lui – che ha lasciato il reame in mano a Patrizia, ufficialmente bossa e protettrice di Secondigliano, Prima del suo nome, Signora dei muccusilli, Guagliona Scetata Assai, Distruttrice di catene, Tramite di don Pietro, Assassina di Scianel – volesse uscire dal crimine, quando invece voleva solo spostarlo su un piano più ampio. Non una piazza di spaccio ma una pista d’atterraggio. La più grande d’Italia. Ma finanziata, costruita, gestita con gli stessi sistemi della piazza di spaccio: coi soldi sporchi, i metodi assassini, la corruzione in alto e la paura in basso.

Genny che, quando i compagni di scuola del figlio Pietro gli boicottano la festa di compleanno, occupa la scuola con pagliacci e animatori, perché l’unica regola per la famiglia Savastano è che le regole non valgono

Semmai, le sorprese sono femmine, stavolta. Patrizia, il boss del cambiamento, con la strategia di accogliere tutti, anche i guaglioni che sbagliano, ma non devono scassare il cazzo e sbagliare troppo; Patrizia che ha la “famiglia” più grande di Napoli ma non ha più famiglia; Patrizia che ci prova, a cambiarsi d’abito e stare dall’altra parte della boutique (lei che faceva la commessa a Posillipo), ma resta la ragazza goffa dalla camminata sgraziata, la ragazza con la coda di cavallo, il chiodo striminzito, i jeans troppo stretti. Azzurra, il vero mistero antropologico della serie: una donna bella, istruita, intelligente e persino fine (l’unica che porti capi eleganti e non solo costosi), che per misteriose ragioni è davvero innamorata di Genny, rischia la vita per lui, rinnega suo padre, si rinchiude nei quartieri fatiscenti, lei che viveva negli attici romani, parla un inglese perfetto, sa come condurre una trattativa d’affari, eppure sembra non volere altro che il ruolo di regina consorte.

In verità, Gomorra non è un paese per donne. Per esseri umani, anzi.

La scena più bella, però, è il folgorante incipit della quarta puntata: la madonna d’oro che viene squagliata e rifusa in lingotti, per comprare la società inglese che serve da copertura per l’areoporto Savastano. La madonna dal manto celeste, identica a quella che Donna Imma aveva fatto rimpiazzare al centro della piazza di spaccio. La madonna dalle braccia allargate, bianca e celeste. La madonna che è un altro dei simboli sacri dissacrati. La vernice che viene lavata via, prima di fondere la statua, è la metafora perfetta: è solo un sottile strato di trucco, che Gomorra usa per fingere che ci sia qualcosa di sacro, ma serve a nascondere la realtà dei suoi soliti traffici, il suo oro sporco, la sua impudicizia nel servirsi di qualunque cosa.

La stagione quattro segue le diramazioni di Gomorra, oltre i quartieri concentrazionari che ormai abbiamo girato in lungo e in largo (anzi in stretto): le infiltrazioni nei palazzi comunali, negli studi professionali, nelle banche. I sindaci eletti a cinquanta euro a voto, i professionisti di prestigio che chiudono affari ma chiedono l’ “aiutino” di una bomba o un’intimidazione (salvo poi ricevere anche loro una scatola con una mano mozzata, tanto per fare capire chi comanda), le seconde e terze generazioni di criminali che studiano fuori ma tanto poi tornano, e non sono cambiati. Gomorra come magma che sta sotto ogni crosta, come melma di ogni fognatura, come fuoco di ogni terra dei fuochi. E la vicenda del terreno che il padre di famiglia, la cui moglie ha un cancro devastante (come tanti che vivono nella terra dei fuochi), non vuole vendere ci commuove, almeno fino a quando non scopriamo che è stato lo stesso padre di famiglia a interrare, dietro compenso, quei fusti di veleno che probabilmente hanno causato il cancro alla moglie. Perché l’economia malata è un circolo vizioso, la moneta cattiva scaccia sempre la buona e l’azione cattiva azzera sempre quella buona.

E Gomorra è anche fuori città, nelle campagne, dove i Levante allevano cardellini e commissionano omicidi: è la figura più narrativamente consueta, quella del boss antico, Gerlando Levante, zio di Genny, che passa tutto il suo tempo tra le gabbiette, a sussurrare agli uccellini e accoppiarli, mentre fuori i suoi passano il tempo a sussurrare ai sudditi e accopparli. Il miscuglio di vecchio e nuovo stavolta è potente, perché Gomorra si estende nello spazio e nel tempo, e tutto è Gomorra.

Quando accusano questa serie di disegnare un universo totalizzante fanno un solo errore: non è la serie, non è la narrazione. E’ la realtà.

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Avete presente, sì, quello snobismo cretino per cui quando un libro, un film, una serie tv lascia tutti entusiasti tu sei colta da Scuntentizza Grave A Prescindere, o Ripulsa Programmatica, o qualsiasi altro modo vogliate usare per definire il “preferirei di no” che sostituisce il solito “sì, sì, sì” (ovvero, Bartleby che prende servizio mentre Molly Bloom è in permesso)? Ecco. Con “L’amica geniale”, libro prima e serie tv dopo, a me è successa questa cosa. O meglio, mi stava succedendo, ma poi una mia amica geniale ne ha detto cose che io, come una Lenù calabrese ma spiccicata, ho subìto come ogni volta che lei capisce le cose prima di me, meglio di me, invece di me. Che io pure, quando essa, Lila mia, parla mi sento un’imbecille, perché lei mi spiazza, e mi gira e mi vota e mi furrìa il mondo e me lo riconsegna capovolto e nuovo, e dice “ecco, accussì sta mieglio”, e io invece d’essere colta da diffusa piromania, come sarebbe mia indole veritiera, vorrei fare qualunque cosa esiste sulla Terra per compiacerla, per rallegrarla, per inseguire in qualche modo inevitabilmente goffo la curva perfetta della sua gittata. Anche se  il suo volo è inevitabilmente diretto, ogni volta, verso un abisso, uno schianto o quantomeno un buco nello scantinato, dove lo sanno tutti che abita il diavolo.

Ecco, l’effetto-amica-geniale è il solo che possa contrastare l’effetto-sono-troppo-famosi-per-piacere-a-me. E infatti.

Penso che nella vita di tutti c’è una Lila irraggiungibile, e non ci sono pagelle e diligenza e nemmeno botte di culo che tengano: lei è esattamente quello che ti manca, quello che fa curvare l’orizzonte, quello che fai tanta fatica a raggranellare nel resto del mondo. E tu, chiunque sia, sei Lenù, bellina ma non abbastanza bella, o bella ma non meravigliosa, mai meravigliosa, mai spaventosa, mai con gli occhi che vedono oltre, dove la tua dabbenaggine lenuesca vede cose consuete, e i suoi invece bucano tutti i veli, e scorgono i demoni profondi, o le divinità dorate e spietate che stanno oltre, e forse sono la stessa cosa, ma questo tu, tu, Lenù, Lenù, non lo saprai mai.

E non ti viene, con Lila, nemmeno la competizione – che pure sarebbe una cosa tua, una cosa persino facile – , perché tu lo sai che lei è imprendibile, è fuori scala, e richiede tutte le risorse generose del tuo cuore zittito e appagato solo dalla sua attenzione, dal suo affetto selvatico.

Ora io non ho ancora letto i libri (vi confesso che trovavo più o meno disgustosa tutta quella bagarre su Elena Ferrante: ma avete davvero mai visto un autore che ha qualcosa a che fare con le sue opere? ma ve ne frega così tanto davvero?), e mi auguro che non mi rovinino tutto, ma sto guardando la serie di Saverio Costanzo e ne sono profondamente avvinta. Per la qualità della storia, la potenza degli archetipi che smuove, la narrazione della violenza pervasiva che è l’unico legame tra i personaggi. Una violenza verticale, di classi, che pure segna la sostanza in qualche modo omogenea del Rione, dell’appartenenza che non si discute e non si interroga, si subisce e basta. Una violenza orizzontale, dentro ogni famiglia, ogni nucleo, dovunque esso si collochi nella geografia sociale e abitativa. Una violenza di genere, ulteriore e trasversale: la più ingiusta di tutte, la più cruda.

I gesti di tenerezza in questo mondo non esistono, o sono pronti a volgersi in furore nello spazio d’un istante. I sentimenti sono assieme istinti primordiali e lussi che nessuno si può permettere.

Le madri sono tutte spaventose: grandi madri steatopigie ma scavate dall’afflizione, dedite in modo autolesionista, sempre circondate e oppresse da bambini (tre, cinque, sei), sempre sottomesse ma colme di rabbia (fa eccezione Melina, la pazza del quartiere, che infatti non si cura dei figli e non nasconde la sua passione malata per il marito di un’altra). Strette tra l’osservanza di virtù arcaiche e nuovo decoro borghese e il collaborazionismo col maschile distruttivo. Incapaci di fare posto alle figlie, alle quali si affrettano a indicare – a cercare di normare – il femminile come calvario, colpa e vergogna da nascondere come il sangue mestruale.

Forse non ci crederete, ma ho capito molte cose di mia madre – cresciuta in un luogo molto simile a quel Rione concentrazionario, con tratti molto simili a quella Lila, con una sfrontatezza che era un grido, un senso della libertà che scontava ogni giorno come una colpa, un’acutezza ribelle che produceva solo strappi nel tessuto uniforme della vita degli altri. Ho capito molte cose della mia famiglia di femmine, perché quel Rione un poco qui esiste ancora, con le sue geometrie sociali invalicabili eppure i suoi codici di riconoscimento salvifici.

I gesti più generosi – i soli gesti generosi che non siano rivolti ai propri consanguinei, e dunque inevitabilmente mescolati alla tirannide, alla rivalsa, alla distribuzione diseguale del potere tra maschile e femminile – li ho visti compiere a due donne senza figli: la maestra Oliviero e sua cugina di Ischia. Un poco le fate madrine di questa spaventosa Cenerentola, le dee ex machina (letteralmente fuori dal macchinario sadico della famiglia), portatrici del raggio verde della bellezza. Che è la grande assente e che questi cuori aperti – Lenù, Lila, Pasquale ‘o comunista, Enzo ‘o parulano – desiderano in modo cocente, anche se non lo sanno.

La maestra porta libri, soluzioni, piani d’evasione, tocchi che non siano solo di spietata durezza. E i libri sono la cosa che brilla, dall’inizio: è un libro che cementa l’amicizia tra Lila e Lenù, il loro patto segreto di sopravvivenza alle leggi del Rione. E’ la biblioteca il tunnel in cui arredano, sempre precariamente, la loro sopravvivenza. E’ attraverso un libro che si riconoscono tra loro, quelli che il Rione possono guardarlo da fuori (e fuori – questa un’altra delle grandi trovate della serie – ci sono persino i colori! Il mondo smette di essere spento, virato seppia, come prosciugato di ogni possibilità cromatica da una luce sempre uguale).

Anche se un libro può essere ingannevole. Dopotutto, quello schifoso di Sarratore è l’unico tra loro che addirittura un libro l’ha scritto. Un libro di poesie, persino. E lui è gentile invece che brutale persino come capofamiglia, e suona la chitarra e racconta barzellette e non sembra proprio interessato alla vita nell’enclave dei maschi dove si trovano tutti gli altri, in canottiera o con la giacchetta di camoscino, col grembiule di cuoio o la tuta blu, a fumare e scambiarsi grugniti comunque efficacissimi nel veicolare le differenze di censo, di riguardo e di ringhiera. Lui ama stare coi figli e giocarci, corteggia la moglie, canta col vibrato, scrive sui giornali. Ma solo perché ha altre malattie: dopotutto, è stato lui a fare impazzire la povera Melina, disorientata da un maschile inimmaginabile (mica poteva saperlo, lei, che esistono cose come il narcisismo parossistico, l’egocentrismo e la seduzione compulsiva; sono cose che nel Rione mai s’erano viste). Sarratore non è tecnicamente un pedofilo, quanto piuttosto un dongiovanni incapace di distinguere la realtà dai propri desideri. E rappresenta, infine, l’altra faccia della medaglia, l’altro inganno.

Trovo magistrale l’uso del dialetto: tutte queste cose, o non cose, non sarebbero state comunicabili altrimenti (ed è sottile la mescolanza con l’italiano nei dialoghi di Ischia, tra personaggi che comunque sono usciti dal Rione e stanno forse affrancandosi anche dai suoi codici linguistici).
Trovo magistrale la scelta dei volti: Rossellini avrebbe approvato (ma anche i Taviani della Notte di San Lorenzo). C’è già dentro tutta la storia (in particolare mi sconvolge l’occhio divergente e la fisionomia claudicante della mamma della soave Lenù: un femminile sbilenco eppure imperioso che mi spaventa, forse mi ricorda qualcuno). E sì, trovo pazzesco che una storia così semplice ma articolatissima, così difficile da decifrare eppure nitida, sia in prima serata su Rai1. Speriamo che non se ne accorgano, del bene che hanno fatto. O chiudono tutto e ci ribecchiamo Don Matteo per sempre.
Ps: non dirò nulla sulla violenza a Lenù a opera del Sarratore di cui sopra. Mi preme solo dire che, ecco, immobilizzarsi e tacere non è segno di consenso, ma una delle possibili tre reazioni alla paura: fuga, attacco, immobilità. E a volte si può restare ferme lì per sempre.

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Cara Chiara,
mi dispiace tanto per gli insulti che hai raccolto sul web (anche se persino il più pacifico o insignificante di noi tutti, prima o poi, becca il suo troll: è una specie di legge, un logaritmo dell’idiozia digitale, e più sale la tua visibilità più cresce il numero dei potenziali dementi che verranno a insultarti), ma devo dirti che tentare Miss Italia per affermare una cosa pur bella anzi bellissima, come l’interezza della tua persona a dispetto dell’amputazione, non è esattamente una bella mossa. Perché, vedi, nessuna delle ragazze che concorrono a quella coroncina di strass (porta pure un gruzzoletto di contratti pubblicitari e un anno di ribalta, certamente, ma che valgono sempre di meno, nel mondo degli youtuber e dei blogger che possono diventare miliardari cominciando da uno smartphone)(ogni riferimento a Chiara Ferragni è intensamente voluto) è davvero intera. Ne manca sempre almeno un pezzettino, per accettare di sottoporsi a una delle pratiche storicamente più mortificanti: la misurazione della bellezza. Proprio, misurare quanto sei bella. Quanto sei più bella di un’altra. Quanto hai più o meno seno, quanto ti brillano gli occhi, o i denti, o i capelli. Quanto hai le anche rotonde, i malleoli puntuti, le cosce tornite. Non tu, tu nella tua interezza, ma tu in rapporto alla bionda, o alla mora, o alla rossa tua vicina di fila, anche lei col numerino appizzato alla tetta (e i bravi presentatori ti chiamano proprio così, “la 3”, “la 12”, “la 21”: come se non fossero donne, ma linee del bus).
Perché – vedi – la bellezza, quando tenti di misurarla, diventa un’altra cosa, una cosa meno bella. Certo, una volta si faceva proprio col metro (90-60-90 erano considerate le misure perfette, come uno stampo per ciambelle), ma non è che ora sia tanto diverso: semplicemente, si finge che facciano parte del pacchetto anche cose come giocare a pallavolo, studiare canto o recitare poesie.
Possiamo raccontarcela come vogliamo, che è questione di charme, che lo spirito è determinante, ma sempre la stessa cosa resta: una parata da foro boario, dove fingendo di valutare imprecisate doti intellettuali (ieri c’è stato una specie di interrogatorio che faceva sembrare gli Invalsi il test del Mensa), si continuava a misurare con quel metro lì. Quello delle ciambelle.
No, Chiara, tu sei bellissima intera. Lasciali perdere, i posti dove nessuna donna resta intera, misurata e numerata com’è, poverina.

ps: lamentatio di vecchia femminista che ha sempre considerato i “concorsi di bellezza” cose infinitamente stupide e un poco tristi, e continua a  crederlo intensamente.

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Lo so, è successo anche a me: guardando le foto del povero Alfie, io ci vedevo la faccia contratta di mia madre, persa dentro il suo coma di tre giorni, dopo i quali risorse come un cristo femmina, con le stesse devastazioni, per sparire, come cristo, subito dopo, lasciandoci sindoni stropicciate coi segni delle flebo. Ci vedevo mio padre e i tubicini che lo hanno tenuto in vita per qualche ora, nella guerra persa contro la Cid, che è una specie di ammutinamento del sangue, che esplode e allaga e scorre via dovunque.

Lo so, nessuno di noi è sereno, equanime e logico, davanti ad Alfie, a quella sua parvenza di vita, di calore, di presenza. Non potevo essere serena, equanime e logica, davanti a mia madre che era, assieme, così visibilmente spenta, eppure ancora accesa: la vita scorreva in lei nel modo misterioso dei sogni (degli incubi), coi segni esteriori del respiro, del calore. E io non avrei mai potuto dire: basta. Non davanti a lei, che ansimava nel letto, e sulla fronte le scorrevano cose, grinze, parole, segni che credevo di riconoscere. E le soffiavo in bocca sillabe, perché le riprendesse, e all’orecchio, perché le riconoscesse, mi riconoscesse, e lei sembrava sempre essere sul punto di farlo. Ma non lo faceva. Non lo fece per tre giorni, poi resuscitò da morte. Con la lingua incollata, gli occhi remoti, la parola inferma, ma lei era lì, ritornata.
Avremmo avuto poco più di due mesi per pentirci di avere messo quella firma, di averla fatta operare, consegnandole una resurrezione incompleta ed effimera e giorni di sofferenze peggiori della morte.

Oggi, non rimetterei mai quella firma. Oggi, firmerei perché nessuno facesse per me la stessa scelta: niente resurrezioni parziali e crudeli, grazie.

Ma mi rendo conto che vi sto raccontando di me e di mia madre, perché il punto è esattamente questo, nella storia di Alfie (o di Charlie, o di tutti gli altri che si troveranno sul bordo della morte, immensamente soli, come chiunque, eppure accompagnati da un mostruoso esercito di giudici, politici, medici, reverendi e utenti social, ciascuno con la sua verità feroce): nessuno esce dalla sua propria storia. Nessuno può sapere di un altro, che come me si sporgeva su un letto, a leggere segni, a scrutare la vita e i suoi modi, a opporsi con tutto se stesso all’idea che fosse invece la morte, e noi a non saperla leggere e smascherare.

Ho letto le violente risse tra chi voleva difendere la “vita” di Alfie, e chi diceva quello che era vero: era la morte, quella. Distesa lì, calda, morbida, ma con una sua parvenza di sonno, di divenire, di fiume, di futuro.

Hanno torto, hanno ragione tutti e due.

Ho torto io, che mi sporgo sul letto di mia madre, e la vedo viva, e solo sul punto di svegliarsi, e mi trovo a dare ragione alle santone delle zie, che dicono “capisce tutto”, perché sono avvezze all’impossibile e non trovano ragionevole la scienza, quando non lo ammette.
Ho ragione io, che so che quell’insieme di respiro, calore, presenza, persino quei sogni e quelle parole che le vedo scorrere addosso non sono, non sono più vita, eppure lo sono, e so che artiglierei al volto chiunque m’imponesse – lì, in quel momento, mentre combatto furiose battaglie con l’amore, la ragione, l’impossibile, il certo, il tragico, la follia, l’evidenza, la speranza, l’illusione – di staccare una spina.
Ho torto io, che so tutto e che non so niente. Ho ragione io, che so tutto e che non so niente.

Ps: infine, tutto questo per dirvi che non ha alcun senso “parteggiare”, in una vicenda come quella di Alfie. Ma forse ha senso discutere, e aiutare chi sta sul quel bordo a non farsi tutto il male possibile, ma un po’ meno: stringere la mano, viva, di chi stringe una mano che è già, quasi, forse, no m sì, sì ma no, non proprio, giammai, per sempre, mai più, assolutamente morta.

Caro Michele Serra,

leggendo la sua “Amaca”, rubrica che leggo spesso e apprezzo quasi sempre, del 20 aprile mi sono chiesta: ma qualcuno ha hackerato la firma di Serra? Un infiltrato di “Libero” ha scritto la rubrica in sua vece? Sono stati i sabotatori di YouTube che ora ci riprovano?
Perché, davvero, pur avendola letta diverse volte, anche al contrario – hai visto mai, fossero vere le leggende metropolitane – , e per non incorrere nell’accusa di “fraintendimento doloso” che subito è piovuta addosso a chi, come me, s’era sentito in grave imbarazzo, mi sono accorta che non c’era possibilità di fraintendimento. Era davvero una cosa imbarazzante.

Lei scrive che nel nostro Paese falsamente egualitario (e fin qui sono d’accordo), “c’è uno scandalo ancora intatto: il livello di educazione, di padronanza dei gesti e delle parole, di rispetto delle regole è direttamente proporzionale al ceto sociale di provenienza”.
Partiamo da qui. E’ vero e sarebbe assolutamente cretino negare che esistono grosse sperequazioni e divisioni verticali tra noi che viviamo in questo Paese (ma vale per tutto l’Occidente, e in misura ancora più devastante per il resto del mondo). Ma la divisione è anzitutto, e sempre più marcatamente, una: chi ha i soldi e chi non ce li ha. Cosa che, ahimé, non coincide più, o pochissimo, col sistema di “ceti” a cui Lei fa riferimento e che sembra più quello del libro “Cuore”.

Mio nonno lavorava nei boschi calabresi, era illetterato e non aveva potuto fare che poche classi delle elementari: ha studiato tutta la vita per affrancarsi da quella che, sosteneva, è la vera fabbrica di schiavitù e diseguaglianze: l’ignoranza. Mia madre è stata la prima laureata della famiglia (e di tutta la vallata del Gallico) e una delle sei iscritte donne alla facoltà di Medicina degli anni Cinquanta. Io ho potuto vivere bene, e laurearmi a mia volta, e poi fare la giornalista, ora in bassissima fortuna, da anni in solidarietà e, da ultimo, cassa integrazione. Mio figlio sta prendendo una laurea, ma dal panorama di oggi, qui, sembra che tutt’al più potrà fare il fattorino di Foodora, o l’operatore di call center, o al limite lo stagista gratis. Guadagnando probabilmente meno di quello che alla sua età guadagnava mio nonno. E non so bene dove collocare tutti questi personaggi, nella tassonomia sociale che lei adombra: popolo? Borghesia? Neoproletariato di ritorno?

La Sua acuta correlazione tra “comportamento” e “ceto” cosa significa esattamente? I i nuovi poveri laureati, che sono economicamente proletariato, devono avere modi da prima stagione di “Gomorra”? I loro figli, che magari non potranno laurearsi, o che si iscrivono a un professionale per tentare di lavorare subito, cosa sono, ri-popolo, bis-popolo, neo-popolo? E i nuovi ricchi, magari proprio i Savastano di “Gomorra” (sa, c’è un Savastano in ogni quartiere, qui al Sud), che mandano i figli al liceo classico e i capitali a risciacquarsi in Arno (e Po, e Tevere, e Reno, e Tamigi…), cosa sono, visto che non sono più popolo? E quando lei li vede, o vede i loro commercialisti, i loro avvocati distinti, li identifica esattamente da dove, dal “livello di padronanza di gesti e di parole”? Dal “rispetto delle regole”?

Che il populismo sia una forma di anestesia sociale, che sposta l’attenzione da quella divisione verticale che dicevamo ad altro, è ovvio ed evidente. Ma La informo – qualora non lo sapesse – che il legame tra “populismo” e “popolo” è ormai solo etimologico: il populismo è moneta corrente di quasi tutte le formazioni politiche più retrive che abbiamo sulla scena, e trasversalmente appartiene a tutti gli elettorati e i “ceti”. Il populismo meraviglioso di certa “borghesia” (sto usando le Sue categorie, dottor Serra, si tenga forte) è il nerbo di interi elettorati e partiti, oggi. E la sottocultura che lo alimenta e assieme se ne nutre è altrettanto trasversale, universale e infiltrante.

L’ignoranza, l’aggressività, la tracotanza che Lei menziona come caratteristiche del “popolo” buon, anzi cattivo, selvaggio ahinoi non appartengono ad alcun ceto specifico, perché sono – quelle sì – equamente distribuite nella nostra società, e allignano dovunque la politica, la scuola, le istituzioni abbiano reso le armi (salotti Ikea e case Iacp, “il mio living, la mia cucina” e le baracche, saloni e tinelli, monolocali firmati e casermoni occupati). E sono ancora più impressionanti, in certi contesti. Dove, magari, grazie ai soldi l’istruzione è garantita davvero, ed è ancora più facile l’accesso a una messe di conoscenze come mai si è avuto nella storia dell’uomo.

Poi, che ci sia una correlazione certa tra marginalità e reati penali, tra miseria e disposizione alla devianza, è tutto un altro concetto, per giunta ben noto. Ma la Sua pretesa di tracciare righe col righello, dividere per classi ottocentesche – di qua i Derossi, di là i Franti, un banchetto, ma piccolo, qui in mezzo per i Garrone, che meritano tanto, porelli, ma sempre quelli sono – e ignorare le divisioni drammatiche reali, e la potenza della sottocultura che infiltra e mescola tutto il nostro mondo, è indice di una rozzezza di approccio che davvero non mi aspettavo, da Lei.

Carceri e riformatori sono pieni più spesso di poveri, perché spesso i ricchi riescono a evitarli, e se scippi venti euro a una vecchietta è possibile che tu stia in carcere più di quanto ci sia stato un noto frodatore fiscale che ha scippato milioni a tutti noi. Poi magari lo stesso frodatore ha reti televisive che trasmettono a getto continuo spazzatura, proprio quella che riempie, satura l’ambiente, e rende sempre più facile che ragazzini che non sono né figli di Gomorra né figli d’un arciduca (sto usando sempre le Sue categorie) diventino quelle bestie ignoranti e aggressive che abbiamo visto nei filmini. Poi succede che distinti signori lancino cagnolini dal settimo piano, che mogli e madri esemplari picchino anziani indifesi o bambini dell’asilo, che insospettabili impiegati frodino lo Stato e noi tutti con raffinate forme di assenteismo, o furbettismo, o altre truffe sociali. Ohibò, ma che modi, di che ceto saranno….?

ps: nelle repliche delle repliche delle repliche molti tirano in ballo la sinistra e il fallimento della sua missione. Io credo che il fallimento sia doppio: nell’azione contro le diseguaglianze (che sono cresciute e si sono fatte ancora più estreme, qui e nel pianeta intero) e nel permettere (quando non attivamente colludere) che venisse disperso un preciso patrimonio di consapevolezza, di resistenza, di tensione alla conoscenza e rispetto per tutti i tentativi di abbattere le piramidi sociali con gli strumenti più nobili. In questo, forse, diciamo la stessa cosa, e una cosa diametralmente opposta. Ma per capire, anzi anche solo ammettere gli ossimori e le contraddizioni bisogna avere studiato. Come mio nonno.

ps due: nella replica   del dottor Serra è immancabile il passaggio sul “web che è un brutto posto, pieno di onanisti dell’odio, dove non verrei mai a rispondere” (manco fosse un istituto tecnico industriale). Altra generalizzazione imbarazzante e ingiusta (e poi sì, i 1500 caratteri, per noi che scriviamo di professione, e tanto più quelli bravi come Lei, sono una scusa irricevibile).

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Care sorelle,
non sapete con quanto gusto uso questa parola così vasta, tanto da comprendere le suore dei conventi (che si chiamano così), le combattenti laicissime di un’altra epoca (quando la “sorellanza” era un legame politico, anzitutto), le consanguinee vere ed elettive, nell’enorme illusione d’essere tutte imparentate, le donne, un unico ceppo di segno XX, la doppia incognita che ha sempre segnato la vita di chi è nata femmina su questo pianeta maschio.

Care sorelle, non posso fare a meno di riflettere sull’ultimo contrappello collettivo lanciato appena ieri. Quello delle cento francesi, di cui la più rappresentativa è Catherine Deneuve, non solo perché la più famosa, ma perché – anche – in qualche modo esemplare: bellissima ma anche molto brava, di quelle creature fantastiche ma il cui splendore non è soltanto un gioco di forme o di luci su lineamenti perfetti.

Ebbene, m’ha lasciata un po’ perplessa.
Perché vedete, mie adorate, se condivido senz’altro l’idea che un femminismo odiante e castrante sia una sciocchezza (oltre al fatto, ben noto, che se vai per castrare sarai castrato, anzi lo sei già, nel cervello, e questo credo non ci debba appartenere), e che i climi da caccia alle streghe (anzi, in questo caso agli stregoni) siano sempre i peggiori per l’umanità, purtuttavia non posso accettare una semantica così poco accorta da forgiare lo slogan “libertà d’importunarci”.

In italiano corrente “importunare” – che presumo sia letterale traduzione del verbo francese corrispondente – vuol dire “disturbare, infastidire qualcuno in modo assillante”. Cioè molestare.
Io non do a nessuno il diritto di molestarmi. E vorrei che qualcuno mi spiegasse in quale punto del rispettivo campo semantico “importunare” e “corteggiare” coincidono o si toccano (anche fuggevolmente, anche con una mano sul ginocchio, anche con una strusciata rapida)(esempi, manco a dirlo, di “atteggiamenti importuni” e giammai di “corteggiamento”).

Care sorelle, se può essere giusto e forse necessario (si sa, anche gli uomini più complessi restano creature semplici) precisare “uè, ragazzi, mo’ mica ci dovete diventare imbranati e per la paura di essere denunciati di chissà cosa non ci dovete provare”, purtuttavia ciò non corrisponde, e mai potrà corrispondere, a un “vabbè, molestateci, poi sapremo riconoscere quelli buoni”.
No, sorella Catherine, quell’ “importunare” non mi piace, non mi va giù, non funziona. Non è proponibile. Soprattutto, non è spendibile in questo momento, in questo clima finalmente, sanamente reattivo e consapevole. Con tutto quello che i momenti consapevoli e reattivi portano con sé.

Né mi piace una frase come: “La donna, oggi, può vigilare affinché il suo stipendio sia uguale a quello di un uomo, ma non sentirsi traumatizzata per tutta la vita se qualcuno le si struscia contro nella metropolitana”. Per tutta la vita no, ma fino alla fermata, il tempo di stanare lo strusciatore ed esporlo quantomeno al pubblico ludibrio magari sì, però.
Perché vedete, care sorelle, sorella Catherine, il nostro mondo è ancora talmente diseguale, e mica solo negli stipendi, per noi, e tutto comincia proprio da lì, da quel furto di pochi secondi di autonomia sessuale, da quel riaffermare, in pochi centimetri (di solito, considerando chi sono gli strusciatori, veramente pochissimi), una delle leggi non scritte che hanno fatto girare tutto il mondo fino a pochissimi anni fa, e tuttora fanno girare una sua enorme parte.
Chi si struscia contro una donna, in metropolitana, sta riaffermando l’antico, odioso pregiudizio, l’antica, odiosa inferiorità del corpo e del sesso femminile, l’antica, odiosa supremazia del maschile. Anche la faccenda degli stipendi, sorelle, viene da lì.

Certo, sorella Catherine, voi dite bene denunciando la campagna di delazioni e accuse senza possibilità di replica, e gli schizzi di fango che stanno colpendo un po’ ovunque. E’ ovvio che non basta che una donna accusi un uomo purchessia (di solito un uomo di potere e una donna che in qualche misura da quel potere è stata danneggiata) perché le sue accuse siano valide, anche se in questo momento sembra accada per tutti e indiscriminatamente. Ma vi ricordo che viviamo nello stesso mondo in cui per millenni è stato così al contrario: bastava essere un uomo e accusare di qualunque cosa una donna (adulterio, stregoneria, libertà di pensiero, satanismo, sessualità, ostentazione di caviglia o di capelli, bizzarria, ribellione) per essere creduto. Ancora ciò succede – oggi e qui – in un numero di Paesi sconcertante.

Io sono certa, sorelle, che tutte noi vogliamo un mondo migliore. Quello in cui gli uomini ci corteggiano, o noi corteggiamo loro, e non c’è violenza da nessuna parte. Quello in cui sono chiari i confini tra le cose (tra i campi semantici delle cose), in cui lo stupro è un crimine e basta e la molestia non è un corteggiamento goffo ma un abuso di potere, in cui se accusi qualcuno, uomo o donna, devi provare le tue accuse, in cui nessuno si struscia addosso a qualcun altro in metropolitana, in cui le relazioni sessuali (le più primordiali tra tutte quelle che sperimentiamo nella vita) sono armoniose e consensuali in qualunque aspetto, anche il più selvaggio. Ma ci dovremo arrivare, e a occhio e croce ci dobbiamo pensare noi, perché i maschi non sono portati.

Quindi pesatele bene, le parole, se dovete dire qualcosa in questo magico momento. Questo momento in cui qualcuno ha paura delle donne, finalmente. Perché non mi dispiace, un mondo in cui hanno paura delle donne – sì, di tutte le donne, indiscriminatamente – gli uomini come Weinstein, o come gli assassini delle donne, o gli stupratori, o i molestatori, o tutti coloro che ancora oggi ci mutilano, ci rinchiudono, ci coprono di veli fino agli occhi, ci impediscono di studiare e di ballare, di ridere e di guidare.
Purtroppo, siamo ancora dentro quel mondo lì, quello della metropolitana, quello dell’accappatoio, quello del cedolino di stipendio che segna cifre diverse.

Ciao, sorelle.