
Il Nano Feroce era piccolo quanto un bambino di dieci anni. Però faceva spavento, con quei capelli tinti di mogano e aggiustati col riporto, gli stivali da podestà e il frustino sempre in mano. Camminava come un uomo alto, infatti, girandosi compiaciuto in mezzo alla folla miserevole dei paesani acciaccati dalla sorte e dalla guerra incipiente.
In sua presenza non si doveva mai dire la parola “basso”, e nemmeno “corto”. Oppure si finiva in Albania, nelle miniere o quantomeno a raccogliere le cacche dei cani da caccia, nella sua proprietà.
Che poi non era davvero sua proprietà. S’era impadronito della Casa del popolo, davanti alle scuole delle suore, e s’era pure recintato il giardino, e l’aia dove razzolavano le galline requisite.
Tanto, le uova gliele portavano i paesani, come giusto contributo alla causa. E pure il vino nuovo, il pane di casa e il formaggio. Le olive, quando era stagione, e i ciccioli caldi di maiale. Anche il sanguinaccio, che gli piaceva assai perché – diceva – “il gusto del sangue è cosa da uomini”. Però ci doveva essere molto mosto, zucchero e anche tante mandorle, nel suo. Che di cioccolata non se ne trovava più da un pezzo.
Il Nano Feroce s’era fatto da solo, ripeteva. In effetti, nessuno sapeva dove fosse stato, o cosa avesse fatto, prima di spuntare col documento che diceva che lui era il Podestà e tutti dovevano ubbidirgli. Che era finito il tempo dei nobili e dei preti, e ora c’erano gli uomini, al governo. Gli uomini alti, lasciava intendere, drizzandosi sul suo metro e quarantuno e sbattendo i tacchi.
Gli stivali glieli lucidava il ciabattino, tutte le mattine. Sputava sulla spazzola, prima di strofinarli, e sputava con tanto gusto e impegno che gli stivali venivano lucidissimi.
Se è per questo, c’era anche altra gente volenterosa che si preoccupava di pisciare negli angoli del cortile del Nano, per proteggere la casa dal malocchio. E si preoccupavano tanto spesso e con tanta diligenza che fu necessario distaccare nel cortile la Milizia (all’epoca rappresentata dal campanaro, il custode del cimitero, un mastro d’ascia invalido e il nipote scemo del podestà), per fare la guardia.
Perché i paesani erano diligenti, altroché.
Per esempio, il Nano gradiva che lo salutassero con un motto in latino, di quelli che Lui aveva fatto scrivere sui muri. Chessò, “frangar non flectar”, oppure “audaces fortuna juvat”. E così, quando passava il Nano, era tutto un “fango, non fetta”, oppure “adaggio fottuta gghiovi”.
Ma il Nano regnava sul paese, sorridendo dal vano della finestra, accanto alla chiesa dell’Arcangelo. Faceva un discorso ogni domenica, dopo la messa, quando la piazza era piena di gente, e diceva che tutto – da quando c’era Lui – andava bene. Le greggi aumentavano, il latte scorreva a fiumi, le castagne erano tante che non si sapeva dove metterle, per non parlare delle erbe selvatiche e della gramigna, e Roma rivendicava l’Impero.
Quando succedeva qualcosa – in una notte di dicembre un incendio si mangiò duecento case, un’epidemia di febbri di stomaco si portò via un sacco di bambini e di vecchi, cento uomini validi furono arrestati dal maresciallo Petrosillo per “associazione per delinguere” e storie di roncole e coltelli – la colpa era dei comunisti. Che erano pure ricchioni, amici dei negri e degli ebrei e coglioni senza rimedio. Che c’era differenza tra essere coglioni e averceli – e qua il Nano scrollava con forza la patta dei pantaloni, ben piantato sui tacchi, sforzandosi di allargare la mascella, sul collo corto, come faceva Lui.
Nei primi giorni di ottobre del 1935 – era un autunno d’oro sporco, indecifrabile e gonfio come un’estate – il Nano convocò un’”adunata oceanica” nella piazza dei Santi Martiri. Il campanaro suonava a rintocchi forti, perché tutti dovevano venire, anche dalle campagne: Lui avrebbe parlato per radio agli italiani, per dire una cosa importantissima.
La piazza era già piena: uomini sudati, con la giacca appesa sulla spalla, ragazzini scalzi che si tiravano moccio e pietrisco, persino animali. Le donne no, stavano nei vicoletti, la mano sul fianco e il fazzoletto annodato sulla testa. Qualcuna più in basso, che si lanciava sguardi neri con qualche giovanotto.
Il Nano – che quel giorno indossava la sua migliore uniforme, col fez e la sciarpa tricolore con la ‘nnocca – aveva invitato il medico, il farmacista, il parroco e le signorine Sabbia, che erano tutti nel salotto a bere rosolio e mangiare piparelli. Sul davanzale di pietra della finestra aveva fatto piazzare la radio, che era alimentata da una batteria d’auto (in paese non c’era la corrente elettrica, come non c’erano le fogne, l’acqua e la giustizia). Di lato c’era il messo comunale Lo Sardo che, col braccio fuori dalla finestra, teneva una canna in cima alla quale era legata l’antenna.
Ci misero un pezzo a far funzionare la radio: un miliziano accendeva, e il messo comunale Lo Sardo doveva regolare l’antenna, sporgendosi fino quasi a cadere in strada. Ogni tanto si sentiva una parola, lontanissima e piena di crepitii, come se bruciasse, oppure due note di un qualche inno pieno d’ottoni e grancasse. E Lo Sardo piegava di più il braccio, oppure si sollevava sulle punte.
Accanto a lui, il Nano stava in piedi su una panchetta, rigido, che dal davanzale sporgevano le medaglie di latta. Era alto almeno due metri, in quel momento, e forse di più.
All’ora giusta il Nano intimò il silenzio, e tutti trattennero il fiato. Solo qualche belato, o un suono di campanacci veniva da lontano, dallo sdirrupo alle spalle della chiesa. Si sentì come un grattare di unghie, una serie di fruscìi e poi niente. Il Nano battè con forza il piede sulla panchetta, la faccia piccola piena di dispetto. Il messo comunale Lo Sardo si sporse ancora di più, sollevando col braccio anchilosato l’antenna. Niente, nemmeno un rumore. La radio taceva.
Allora il Nano, indispettito, comiciò lui pure a trafficare con la manopola, sbuffando. Lo Sardo era quasi tutto fuori dalla finestra, sporgendosi come per acchiappare con la canna le voci dell’aria.
L’apparecchio emise una scarica potente, che fece sobbalzare tutti e quasi precipitare Lo Sardo dalla finestra e il Nano dalla panchetta. Seguì un fischio potentissimo, che tutti si portarono le mani alle orecchie, e poi una parola sola, a volume altissimo: “Corto!”.
Era la voce di Lui, senza dubbio. Chissà cosa stava dicendo, mentre annunciava la guerra all’Etiopia. Ma la radio, l’etere, l’aria sottile della montagna, il braccio e la canna e l’antenna di Lo Sardo, la gente, dio, le pecore, il bosco, i castagni, il diavolo, la sorte o chissà cos’altro fecero passare soltanto quella parola. Corto.
Ci fu un silenzio profondissimo, largo quanto la piazza. Ma la parola ancora vibrava, sospesa nell’aria, tanto che tutti guardarono in alto, per vederla. Corto. Corto. Corto.
E cominciarono tutti a ripeterla: corto, corto, corto. Centinaia di voci, campanacci, belati. Corto, corto, corto. La parola proibita sgorgava con gusto, dilagava e riempiva la piazza e si versava nella valle, rimbalzava contro la montagna e tornava indietro. Corto, corto, corto. Le donne, gli uomini e i ragazzi. Corto.
Lo Sardo aveva gli occhi sbarrati e le labbra strette per non ripetere pure lui – la canna e l’antenna ancora in mano, il braccio orma
i di legno fuori dalla finestra. Nel salotto, le signorine Sabbia abbassavano gli occhi, ma il medico sorrideva attorno al sigaro, e il parroco si guardava le mani, prendendo nota mentalmente di recitare una preghiera di pentimento e contrizione per la soddisfazione che gli gonfiava il petto magro.
Corto, corto, corto. Il Nano biascicava, e ora era un metro e quaranta scarsi, e forse pure di meno. I miliziani lo guardavano con gli occhi dei vitelli, e non sapevano cosa fare. Corto, corto, corto.
Insomma, il Nano sparì. E il podestà successivo era alto un metro e settantadue, almeno.
Questa cronaca semiseria di accadimenti quasi reali (più della metà è oro colato, lo giuro sulla pianta di basilico) per commentare i recenti accadimenti, visto che la storia non smette di ripetersi e i nani di tornare. La faccenda dei "coglioni" (a proposito, guardate qui, in ecolaliste) sarebbe puro folclore azzurro, se non ci fosse sotto una cosa assai più seria. Sì, mi sono offesa. Mi sono offesa mortalmente. Ma non perché mi ha insultata. O meglio, non mi ha insultata con quella parola. M’ha insultata rendendomi chiaro che, secondo lui e quelli come lui, è giusto e normale votare per chi fa i tuoi interessi. Non per chi sostiene le tue idee. Non esiste nemmeno, per lui, il pensiero che pagheremmo volentieri tutti tre volte l’Ici, per un poco di giustizia sociale in più, o uno Stato (delle cose e delle persone) dignitoso. Che rinunceremmo volentieri a qualcosa per avere quello che crediamo, che riempie ben più dei portafogli. Non lo sfiora nemmeno, questo pensiero. Ecco cosa trovo offensivo e mortificante. amen.
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