Nel cerchio delle madri c’erano madri giovani e vecchie. Madri di molti anni, con bellezze svanite appena percepibili negli angoli del volto, madri giovani dai denti affilati. Madri coi capelli di ragazza, in trecce nere grosse quanto il braccio d’un uomo, piene di nodi segreti. Madri sottili, trasparenti, probabilmente morte da anni.
Il cerchio delle madri decideva ogni cosa. Si riunivano in un punto della notte, così oscuro da essere ignoto a tutti. Gli angeli stessi le sorvolavano senz’accorgersene, perché non avevano sangue che potesse sentirle, loro che erano nati da un’esplosione di luce o volontà. Nemmeno dio poteva scorgerle, esiliato nel suo palazzo al di sopra della terra, in cui esse arrivavano come tramontana, calmeria di scirocco, nuvole sanguigne, echi di sacrificio che lui leccava dal filo del coltello.
Il cerchio delle madri decideva ogni cosa. Ora dovevano decidere quale sarebbe stata la madre del Promesso. Una madre agnella da consegnare ai secoli. Una madre dal manto celeste, dalla cenere di rose, dai lunghi gigli. Una madre che avrebbe dovuto spegnere nella sabbia dolce la rabbia e la ferocia delle madri. Una madre che avrebbe incarnato le madri, buona da mangiare per mille anni.
L’orlo dell’altipiano ruggiva di temporale, le foglie tremavano appena, il resto dei mortali era sepolto nel sonno, e le madri in cerchio, zitte, guardavano i lampi rifettersi sulle fronti pallide, meditando nel loro modo terrestre, interamente umano, privo di parole riconoscibili. Gli angeli gemelli e messaggeri, partoriti da uno specchio, attendevano poco fuori dal cerchio, ch’appariva loro soltanto una confusa architettura vegetale, piena di viticci e fiori color carne, agitati a caso dal vento d’orlo e di bufera. L’inquietudine mordeva la loro consistenza d’etere, inspiegabile.
Le madri tacevano il loro silenzio profondo, ruminante. Di lontano, era piuttosto un brontolìo, un boato, una vibrazione costante paragonabile allo sforzo della terra di girare nel suo verso consueto.
La tensione s’esprimeva in temporali, venti scomposti, intorbidimento delle acque, brutti sogni.
Il dio voleva un simbolo, una madre di pura luce dalla braccia allargate. Le madri volevano che non dimenticasse il dolore delle acque, il peso, la fatica. Il dio voleva si drizzasse nella luce composta, inequivocabile, priva d’ombra. Le madri volevano che portasse con sé la ferita originaria. Il dio voleva ch’avesse la mano pietosa, che passa sulla fronte, chiude gli occhi, consola della vita. Le madri volevano che quella mano segnasse il confine tra i mondi, come esse fanno da sempre.
Infine, scelsero.
Vabbé, sapete che io partecipo indegnamente alla nobile Settimana artistica – questa volta dedicata a Piero della Francesca – portando soltanto collezioni di incubi. La Madonna del parto mi sembra bellissima e terribile come tutti i simboli, che non erano belli o decorativi, e parlavano di morte. In particolare è la mano che mi attira, il punctum del dipinto. Quello – se ne esiste uno – è il confine trasverso fra i mondi. Se è vero che Piero della Francesca costruiva puri mondi di luce ultraterrena, privi d’ombra, tutti sintassi della mente, è pure vero che nessuna madre sarà mai così priva di sangue, di mistero, di mani di traverso sull’affiorare temibile della vita.