– Qual è l’ora degli spiriti? Mezzanotte?
– Mezzogiorno, mezzanotte.
– E c’è anche un’altra ora nel pomeriggio…
– Sì, c’è un’ora nel pomeriggio, e prima di quell’ora noi ce ne andiamo dalla Grotta Abate, a Vulcano, che dicono che lì si vede una fimmina, che ti guarda male, e noi ce ne andiamo, dalla grotta, ce ne andiamo per sicurezza, dalla grotta.
Le piante di cappero spuntano ovunque, e i capperi non sono frutti: sono boccioli incoronati di raggi. I frutti sono bacche ovali con un’altra consistenza e un altro nome, e un patto segreto con gli altri padroni delle isole: le lucertole. Perché di continuo le isole sono fatte da se stesse, in un lavorìo inimmaginabile agli umani: le lucertole bevono il succo dei cucunci, i frutti del cappero, e portano via i semi incollati al corpo, fin dentro le fessure in cui la roccia inquieta s’apre e s’assesta, tormentata dal sole e dalle radici, sollecitata dalla lava, erosa dalla bocca salata del mare. Per ogni cespuglio c’è una storia di passaggi, esiti, trasformazioni.
Il capitano Bubù in realtà si chiama Bartolo. Possiede un gozzo di legno tutto scorticato, coperto da una tettoia di stoffa lisa, e le righe trasparenti lasciano ormai passare il sole. Sul fondo ha dipinto un occhio aperto “così, perché mi piaceva” dice. In effetti, vuol nascondere che quell’occhio serve a tenere buoni gli dei delle tempeste.
Ha occhi e talloni della gente di mare, e una folta barba color sughero. Parla un italiano gentile, e aiuta tutte le donne a salire sulla barca. Fa avanti e indietro tra le spiagge di Lipari – spiagge bianche, white beach, capo rosso e cave di pomice – e qualche volta arriva fino a Punta Castagna, da solo, così, per tenere aperta la strada. Quando passa sta sempre in piedi, e tiene il timone tra le ginocchia, e guarda la costa senza saziarsi.
Il fondale davanti alle cave di pomice: piatto, bianco, compatto. Vi si disegnano, in ogni direzione, le scie delle ancore. Sono come i canali di Marte, le linee della mano, i disegni dentro un cristallo di neve: casuali, e pure sempre sul punto di dirci qualcosa, di coagularsi in segni. Poiché siamo animali semantici, non facciamo che guardare, guardare, guardare, escogitando – ognuno per sé, sottovoce, nascostamente – un modo per leggere.
Sono certa d’avervi riconosciuto mappe e romanzi. Qualcuno parlava persino di me.
Arrivando a Stromboli si ha la certezza: ecco, non c'è più nulla al mondo. La terra è una palla d'acque con al centro un vulcano. Non c'è notte e non c'è giorno, c'è una sterminata luce dall'orlo viola che non fa differenza tra cielo e mare, e poi, dritto a prua, approdo inevitabile e solitario, il cono nero di Stromboli.
Nell’impasto ci sono latte, mandorle, strutto. Cannella, pimento e vino cotto. Ci sono lava, rocce quaternarie, pomice. Ci sono pazienza, rassegnazione, continuità. Ci sono attese, tragedie, barche che tornano vuote. Notti affollate, mattine sgombre come il primo giorno del mondo. Ci sono alcune spiagge nascoste, soggette agli umori del mare. Ci sono milioni di anni. Collane di pesci, collezioni di venti. Ci sono formule magiche, e gesti tramandati: non è il fuoco, né l’acqua, né la mano a compiere la trasformazione. E’ la fede nell’immutabile.
I biscotti in questione si chiamano “spicchitedda”.
La spiaggia delle cave di pomice l'ha disegnata De Chirico. I vecchi fabbricati sono quinte d'osso, perfettamente vuote, dello stesso colore della pietra madre. Mattone su mattone, sono ormai compenetrati nella natura che li ospita. D'umano hanno ancora le finestre: decine d'occhi nella sintassi di sguardi delle costruzioni. Al crepuscolo, si caricano d'una tristezza sconosciuta alla pomice, alla spiaggia, alle caverne che inghiottono acqua salata.
Noi che passiamo, invece, col cuore stretto e appeso al filo del ritorno, la riconosciamo benissimo.
La Protezione civile a Lipari è come il mare: tutti lo nominano ma non si vede. Ed è meglio così. Il terremoto è un visitatore antico, qui tutti lo conoscono e sanno guardarsi. Dopotutto, sono terre così antiche da essere in confidenza coi grandi moti di natura, con le forze oscure che drizzano le montagne e fanno ruggire i vulcani. Sono terre così pazienti da sopportare da secoli di franarsene a mare e ricominciare a terrazzare, palettare, fare argini e scongiuri contro la notte, il mare, la forza di serpente occulto del terremoto.
La protezione civile, coi suoi baveri e i suoi elicotteri, fa sorridere chi vive da sempre tra faglie voraci e vulcani socchiusi.