
Che Siracusa è sempre diversa lo sapevamo: basta sorprenderla di notte, quando i palazzi barocchi si sgranchiscono e agitano le cuspidi. O quando l’alba si libera d’improvviso da un punto imprecisato del mare. O quando la luce si deposita sulle facciate di pietra gialla in moto ondoso, e ne saltano pesci, parapetti di ferro battuto, ciglia nere.
Ci aveva promesso un sacco di tango, come fa sempre. Ma nessun tango somiglia mai ad un altro (Eraclito diceva che non ci si bagna mai nella stessa acqua, perché “panta rei”, e chiaramente si riferiva alla ronda), e così Siracusa ha fatto, come sempre, di testa sua.
La ronda delle pance
Il tango è virale, sapevamo anche questo. Si trasmette con batteri invisibili, strette di mano, spettacoli casuali, abbracci. La pandemia è in corso da molti anni, e ogni giorno conquista nuovi territori: Giappone, Siberia, il mio tinello, la zia coi baffi. Ora scopriamo anche di più: il tango è addirittura fertilizzante.
Demetra, dea delle messi (ma anche dei papaveri), s’è messa anche lei a ballare: mai viste tante pance, attorno al tango. No, non mi riferisco a quella di Julio Balmaceda, che è pur sempre ottima e abbondante, come tutto quello che lo riguarda (eppure dovevate vederlo ballare un valzer leggiadro, o una milonga a passi piccolissimi coi suoi piedoni smisurati, la sua barba da mangiafuoco, la sua giacca da giostraio).
Corina De La Rosa, Barbara Forte, persino l’altra Barbara, la ragazza delle scarpe Flabella (possiede nel suo negozio una parete piena di scarpe scintillanti che s’arrampicano fino alle stelle)(se ci passi davanti nella notte d’Ortigia senti distintamente i tacchi ticchettare, forse in una ronda tra loro invisibile a noialtri) erano molto molto incinte.
E immaginate quei piccoli immersi in un brodo di tango fin da adesso, attraversato da violini e bandoneon (e persino dal sibilo di missile dei voleos: Barbara Forte non ha rinunciato a esibirsi con Claudio e anche con Julio, strappandoci ohhhh di autentica meraviglia e persino qualche stilla d’invidia, noi che non siamo di sette mesi eppure un voleo così antigravitazionale non lo faremo mai e poi mai).
Insomma, la mamma dei tangueri è sempre incinta. E questa è una grande consolazione.
La loghèscion
Ragazzi, il G8 del tango ha tenuto le sue furibonde consultazioni in un luogo antichissimo: il ritrovato Castello Maniace, sulla punta del muso di coccodrillo di Ortigia allungato nel mare.
Una fortezza che fu abitata da regine e da soldati, dove si tennero banchetti e stragi, adunate e feste, e il sangue si mescolò alla polvere da sparo e alla salsedine metallica del mare orientale dalla luce di specchio. Due arieti di bronzo fuso in Grecia lo sorvegliarono per anni, e poi divennero il prezzo del tradimento (c’è sempre, dietro le pietre antiche, una Sicilia di compravendite di anime, di inquisizioni, di tradimenti atroci e violenze trionfanti, una Sicilia ingiusta dove si fonda la fortezza di metallo dell’ingiustizia di oggi): in una notte aromatica del 1448, dopo un banchetto sontuoso nelle sale del Castello, il capitano Giovanni Ventimiglia fece uccidere tutti gli invitati, nobili siracusani frondisti che s’erano ribellati.
Succede spesso: il tango s’impadronisce di luoghi dalla storia stratificata e antica, luoghi alternativamente giusti e ingiusti, splendenti e decaduti, e porta la sua particolare rinascita. Ora c’è un tappeto di passi, in tutte le lingue tanguere conosciute, nella piazzaforte, tra gli archi barocchi spalancati, sotto le bandiere.
Tango global
D’altronde, ce n’erano proprio di tutti i colori. Cineserie, mitteleuropa, perfida Albione, Grande Madre Russia. Persino Aspromonte, Cipro e Atlantide. Isola d’Elba e Avalon.
E’ stato un festival multietnico: non più, non solo, la classica contrapposizione-fusione Europa-America, con la Francia e l’Argentina che si cercano senza trovarsi mai (ma abbracciate strette, a sedursi e pugnalarsi come nel tango).
Ho conosciuto un tanguero agrigentino-romano specializzato in porcellane Ming: le cinesine dal tacchi metallizzati e il sorriso ineffabile sedevano di solito in file da alveare sotto il traliccio delle luci, a fingere attesa e sottomissione, vere Cio-Cio-San da guerra.
Il mio B&B era infestato da inglesi smisurati con un numero spropositato di gengive e il classico stile tanguero britannico: moto ondoso permanente, come una traversata Dover-Calais forza nove.
E le russe: russe lattee con falpalà soprannumerari e controvoleos molotov, ben rappresentate dalla sottile Veronica Toumanova che si è esibita con l’enfant prodige aretuseo Fausto Carpino (ma io l’ho apprezzata forse di più allo Zen, a condurre da uomo in tappine infradito e sguardo leninista). L’unico russo che aveva cominciato a ballare il giorno prima (anzi la sera prima, sul tardi) l’ho beccato io. Era così giovane che ho temuto un’accusa di pedofilia, così alto che mi guidava con l’ombelico e così atrás che m’è venuto il mal di mare. Mar Nero, ovviamente.
Poi molti francesi, mais oui, gli ovvi argentini, molti dei quali veroneggianti (e s’è sentita, la mancanza dello sguardo assente di Pablo Veron), e un certo numero d’imprecisati baltici.
E qui dovremmo menzionare una questione sempiterna: la taglia.
No, non nel senso che le dannate della tappezzeria (tra cui la scrivente, soprattutto in certi momenti) metterebbero volentieri anche una taglia, sul bailarino omittente (ma potremmo anche arrivarci, in un futuro prossimo, se continuerà la crescita zero dei tangueri maschi…).
Ci sono tangueri XXS e tangueri XXL. Di rado trovi una confortevole M calibrata.
Ho visto cose che voi umani… olandesi volanti alti come tralicci, filippini tascabili. Il classico diabolik nordico: pelata lucida, camicia scura, pizzetto transitivo. Il romano che si riconosce da lontano: camicia troppo bianca, unghie burine, invito al quarto tango della tanda… E poi la mediterranea, l’arioeuropea, l’ugrofinnica.
Ho visto tangueri fuggire dopo un incauto invito: “Era lì, sembrava piccola… quando s’è alzata era alta come la sorella di Frankenstein…”.
O aggirarsi, squali da pista, calcolando a occhio altezze e pesi. Ma attenzione: ci sono modelli contraffatti: la tanguera d’ovatta con struttura in adamantio (il metallo di Wolverine), che poi è la versione femminile del tanguero piombato, le cui scarpe di pelle nascondono suole di kriptonite e rostri come il carro di Ben Hur.
Eppure, resto del parere che il tango è una prova di fratellanza, di superamento di barriere etnico-fisiche. Un tanguero lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia…
Sogno di ballare con un fiammingo di due metri e trenta, ed essere felice, laggiù.
La mirada casuale (o ACPP)
Avendo fondato, nei momenti di panchina, un’agenzia di servizi a bordopista (distribuzione cerotti antivesciche, collocamento tangueros, consolazione naufraghi da ronda, informazioni turistiche, telefonia, comunicazione wireless), ho avuto modo di raccogliere gli sfoghi di numerosi cavalieri, in presa al più classico dei problemi da festival: la mirada.
Abbandonato il confort delle milonghette invernali, dove – forte della propria precisissima carta nautica – domina tutta la situazione, il tanguero medio può cadere in preda al panico da abbondanza, allo strabismo da Dioniso.
“Ho perso due ore a individuare quelle con cui volevo ballare, e altre due a cercarle nella folla, senza trovarle più… “ m’ha confessato un conterroneo.
Sarà che, a volte, quelli con cui vorremmo ballare non esistono, sono miraggi a bordopista, allucinazioni da inedia, proiezioni troilo-freudiane. O sarà che, in effetti, quando la massa ballante è di proporzioni da battaglione, diventa molto difficile incontrarsi con l’immaginario.
Alle donne consiglio pertanto l’abito segnaletico: signore, lasciate l’abitino nero tanto fescion all’inverno, e osate. Una tunica arancio, vi garantisco, vi renderà catarifrangenti in modo indimenticabile. E sappiate che il panta-pascià laminato, pezzo forte del look di quest’anno, non funziona comunque: è un equivalente ottico del nero (oltre a costituire reato estetico, nella terra di Giotto, Caravaggio e Giorgio Armani).
Ma agli uomini consiglio più scioltezza e ardimento: osate, che diamine.
La mirada casuale (o ACPP, a ccu’ pigghiu pigghiu) può riservare soddisfazioni, oltre a garantire una cosa fondamentale, nel tango (e probabilmente nella vita): la mescolanza di geni, il meticciato. Lo scambio, accidenti. Così, senza rete. Una cattiva tanda non vi ucciderà, e forse farà felice qualcuna. Forse persino voi.
Tango zen
“Mi è sembrata una milonga molto poco zen”, m’ha detto albionico uno degli inglesi del protettorato britannico del mio B&B, a colazione.
L’anno scorso era ancora un luogo di nicchia, dove i temerari s’abbracciavano sotto la canicola o, peggio, s’abbracciavano in perizoma sotto la canicola. Quest’anno è fiorita una tettoia, ma è anche vero che ci sono andati proprio tutti, sotto. Più coperti, per fortuna (a parte il tanguero catanese che s’ostina a ballare in mutanda da carabiniere, calzino a mezz’asta e scarpa lucida, o il Big Jim palermitano che, scusate, dopo tanto bodybuilding e uova frullate crude a colazione mica si poteva mettere una maglietta)(meglio i baltici, che avevano la stessa canotta da biker della milonga della notte prima, o anche di tutte le notti prima) .
Caposselianamente vostri
L’esibizione caposseliana di Pablo Inza ed Eugenia Parrilla: sulle note sghembe di “Con una rosa” (e qualche volta bisognerà esaminare scientificamente la misteriosa relazione tra Capossela e il tango: da sempre lo infiltra, s’infila nelle cortine, s’intrufola tra i cd. Sarà che è anche lui obliquo e inafferrabile e meticcio?) sono stati molto fascinosi. Il loro spettacolo è stato estremo: ai confini del tango. Come se si divertissero – anche nel look (pantaloni larghi, guanti da kickboxing, pompon rossi) – a spingere il tango altrove e oltre. Chissà dove.
Temperatura e contrappasso
Festival del contrappasso. Dopo gli altoforni delle due edizioni precedenti (le lezioni da campo di sterminio nel Paladanze a fuoco lento nel sole di Siracusa, che è a sud di Tunisi e si sente), la soave aria condizionata dei bellissimi saloni dell’Hotel des Etrangers l’abbiamo pagata cara: esiste un contrappasso, nel tango o meglio nella vita. Lì nel castello, a spartire il mare, i venti salati, capricciosi, soffiavano con intensità da Blizzard: le soavi pashmine con cui siamo solite abbigliarci non bastavano. L’anno prossimo mi compro una tuta da sci.
La Cortina, questa cenerentola
E invece no, a parte il venerdì, in cui la cortina è stata solo una: il jingle del Brodo Maggi ripetuto compulsivamente fino alla crisi nervosa, è stata la rivincita della cortina, che dovrebbe sussistere come genere musicale a sé, come capitolo obbligatorio nella formazione dei dj.
Bellissime le cortine di sabato: anni Ottanta, i reganiani anni Ottanta che alla maggior parte dei festivalieri smuovevano tonnellate d’inconscio.
Io mi fregio e mi pregio dell’amicizia d’una musicalizadora sopraffina (sì, è HastalaMilonga), che cura la cortina come le tande, ne fa un discorso nel discorso, una spina dorsale musicale che spartisce i tanghi, li incornicia, li evidenzia, li annuncia, come se ogni milonga fosse quello che, in realtà, dovrebbe essere: un anello di musica ininterrotto, che ti prende sul bordo della notte e ti restituisce dopo, sull’orlo d’un altro mare.
Nazitango
E’ uno sporco lavoro, parlarne, ma qualcuno deve pur farlo: c’è un razzismo sottile e latente (ma a volte nemmeno troppo, latente), in certe consorterie tanguere. I Goebbels di turno, appena arrivati in pista, fanno come gli ufficiali nazisti sulla banchina della stazione: tu di qua, alla ronda, tu di là, al gas. Poco ci manca, qualche volta, che si mettano a distribuire stelle gialle – per noi volenterosi principianti, per noi apprendisti perenni, per noi onestamente, sanamente mediocri – da appiccicare sul decoltè. O a tatuare numeri sul braccio (il destro, così che nell’abbraccio sia bene esposto).
Intendiamoci, tutti facciamo valutazioni a bordo pista: la milonga è piena d’occhi, è un luogo dove ci si guarda, dentro e fuori. Ma la spocchia, l’albagia da voleo, la discriminazione da gancho o, peggio, da look ¬– talora accompagnati da sistematico svilimento e da dileggio a bordo pista del ballante per caso – risultano francamente insopportabili e turbano irreversibilmente le anime belle (ho in mente una deliziosa fanciulla forlivese, ballerina soave ma timida d’approccio, ingiustamente maltrattata dal Sor Tangurio di turno, proteso a cercare apilamenti con ben altri pettorali: l’effetto-Villa Certosa funziona anche nel tango, ahinoi).
Sapevamo per esperienza che fenomeni del genere, consorterie di naziskin del tango, esistevano altrove (in altre città siciliane con la C, per esempio)(no, non Caltanissetta), ma nei due anni precedenti non le avevamo mai viste all’opera qui. Anche Siracusa è caduta.
Magari l’anno prossimo ci facciamo tutto un abitino segnaletico, di stelle gialle…
Il tango al tempo di feisbuk
Tutto un “ci vediamo lì”, e poi aggirarsi con aria perplessa: ma sarà quella, la sirena ascellare? E la panterona double-face? E quell’occhio celeste, perché attorno c’ha i crateri lunari? E il sirenetto, non sembrava così… tascabile…
Oppure il dopo-tango: “Scusa, sei su feisbuk?” “Sì, ma lì mi chiamo George Clooney”; “Dai, che quando vado a casa ti amicizzo”; “Ma tu come l’hai trovata la partner?” “Su feisbuk. Solo che pensavo fosse un’altra…”.
Il tango non euclideo
Per un tango passano infinite rette. E’ stato un festival d’incontri, in cui è stata più chiara che mai la natura di comune, di condominio e di casa di ringhiera del tango. Che sì, vabbè, avrà i suoi Sor Tanguri e le sue SS, i suoi razzisti e le sue kapò, ma resta un luogo in cui si cerca la promessa d’un abbraccio, d’un incontro, d’un frammento di felicità da tre minuti.
E’ stato bello rivedersi, e anche non ballare in pista ma con gli occhi sì, con la voce sì. E scoprire i nessi incredibili tra le persone, le figure geometriche non euclidee che il tango disegna, architetto d’emozioni che non è altro.
Arrivederci al prossimo anno.
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