L’apocalisse è cominciata tra le sei e le sei e trentacinque. Dalle fessure scendeva cotone idrofilo, che s’è disteso, uniforme, sullo Stretto. Il cielo era così basso che bisognava scostarlo con le mani, per uscire di casa o aprire lo sportello della macchina: continuavo a sbatterci la fronte, e lui niente, s’appendeva ai fili, strisciava sul cruscotto, s’acciambellava tra i pedali.
Il mare era bianco come il latte, e la Calabria s’era avvicinata tanto che c’aveva sorpassati, e viaggiava per suo conto. In certi brevi strappi del cotone potevamo vederne le radici penzolare quasi fino a terra, mentre scorreva col suo corpo d’altipiano dalle ossa forti sopra di noi. Cantinati, scale a chiocciola, radici di ficus o di lampioni: vedevamo la Calabria da sotto, come di solito devono vederla i mostri marini o gli abitatori della lava, o al limite quelli che stanno dall’altra parte del pianeta, a testa in giù, coi capelli verso la Croce del Sud e l’acqua dei lavandini che gira al contrario nello scarico.
Noi, intanto, eravamo scesi di cinque o sei piedi sotto il livello del mare, senza che questo alterasse poi tanto la città sonnambula e sottomarina. Le macchine si sfioravano appena, incolonnate nell’ingorgo delle nove, delle undici, delle dodici e dell’una e mezza: una brina salata faceva salire la temperatura anche a venticinque, ventisei o trentotto gradi. I cantieri erano conche dove nuotavano pesci gatto, barracuda, anche marmitte divelte dai grandi camion del movimento terra, quelli che stanno aspettando l’affare del Ponte Sullo Stretto, i camion di penelope che porteranno la sabbia, il cotone, i frammenti di palazzina avanti e indietro, avanti e indietro per centinaia d’anni.
Gli odori, che hanno cominciato la stagione per conto loro, e già fanno prove squisite quando meno te lo aspetti, si mescolavano e tendevano verso il basso, schiacciando i suoni proprio a terra: una città odorosa, suo malgrado, atterrava la città rumorosa e la teneva giù.
Sono passata sull’argine, annusando una traccia inequivocabile di zagare misteriose, di mandorli, di magnolie preistoriche di quelle che protendono liane nella piazza, e ogni tanto risucchiano dentro la loro cupola carnivora un passante, di solito un crocerista coi sandali sui calzini o un visitatore che voleva comprare un chilo di pignolata. A noi no, non ci toccano: se pigliano uno di noi, per sbaglio, lo sputano fuori subito.
Attorno alla fontana ci sono quasi certamente varianti cittadine di peschi e mandorli, che ci rallegrano di soprassalto quando usciamo dalla curva, e persino oggi foravano il cotone idrofilo, col loro rosa porpora e i rami di cristalli di legno. Sono oscuramente amici, anche se temibili e pericolosi a loro volta.
Tanto, il tracciato delle strade sta cambiando: l’asfalto s’è consumato da almeno due legislature e cominciano ad apparire le massicciate, i pietrischi, le forre, i canali della città vecchia, che caparbiamente resiste ai cambiamenti, e si ostina a restare, strisciando sotto i basamenti delle palazzine nuove, sotto le traversine del tram surreale che porta da nessuna parte a nessun’altra, quando non si allagano gli argini e i coccodrilli cominciano a strisciare fuori, guardando con occhi assopiti i palmizi.
Davanti all’orto botanico, i cui alberi escono solo in certe notti particolarmente afose, scavalcando la casa del custode e il muro di cinta, s’è aperta una fossa in cui le automobili precipitano tutti i giorni: stendendosi a terra e guardando giù dal buco si vedono chiaramente assi rotte, polene di navi perdute, depositi chiusi a chiave e dimenticati, falde di acqua salata o dolce, o anche di olio vegetale, idrocarburi aromatici, vino colore del mare, nafta delle navi, acque bianche dei colli.
Oggi ne sono cadute venti o trenta: non abbiamo sentito nulla, perché lo scirocco avvolge suono per suono, ma le abbiamo viste sprofondare, davanti alla pompa di benzina. Domani saranno sugli alberi di qualche città di sotto, appese come frutti di latta.
E’ che oggi è stato un giorno d’apocalisse, di quelli d’uno scirocco argentato, soprannaturale. Il sole era una luna, il mare un cielo lattiginoso, il cielo era posato sui colli e sui davanzali, le navi attraversavano gli incroci e le auto precipitavano nei mondi di sotto e accanto. Anche il sangue si fa pesante, in questi giorni (specie se, come il mio, ha poco ferro e non sa volare), e i pensieri strisciano dappertutto, che bisogna mettersi le galosce. I pesci, in compenso, nuotano liberi nell’aria, almeno loro, per una volta.