E lo so che non ve ne può fregare di meno, ma io ci sono stata male, per Paul Newman. Era uno dei miei amori, quando il mondo si divideva ancora in paulnewmaniste e robertredfordiste: loro due già erano in là con gli anni, ma i loro film erano – come sono – giovanissimi.
Non so voi, ma l’adolescenza mi si è chiarita di parecchio, quando ho visto La lunga estate calda: ho scoperto che c’era un incendiario, sotto la pelle che scottava senza preavviso né significato, e che con tutta probabilità, ma misteriosa connessione, c’entravano gli occhi azzurri, il muso spaccone ma incongruamente indifeso di Paul, nel cui broncio naturale s’annidava un’imprecisata fragilità.
Non posso dire che lo amavo: piuttosto, lo subivo interamente, come si fa col peso d’un immaginario soverchiante. E come soverchiava, lui: quando – poniamo – s’inseguiva per le stanze, in quella danza di desiderio trattenuto, d’una frustrazione che non capivo ma riconoscevo, con la gatta Liz che scottava.
Insomma, io non credo che sia morto.
E ne approfitto per fare un bilancio, di vivi e morti.
Sono indiscutibilmente vivi:
Marlon Brando: lo posso sentire distintamente sul terrazzo, mentre dà da mangiare ai piccioni di Fronte del porto. Il cuoio del suo berretto fa un odore riconoscibile, e il subbuglio che mette. E’ della stessa famiglia di Paul, sono fratelli di schermo, di feromone, di cose non dette e raccolte in un punto imprecisabile tra le labbra e le sopracciglia, per esempio.
Einstein: lo si incontra dappertutto. Sono quasi certa che sia lui, con una paglietta sfondata e un bastone da passeggio, sul lungomare di Reggio Calabria, a contare le specie di insetti ignoti nei buchi delle piante millenarie.
James Stewart: lui sta per lo più seduto al bar, in compagnia di quel suo amico, Harvey. Se gli chiedi perché sta sempre lì a perdere tempo ti risponde che sta lavorando. Il suo lavoro è credere nei miracoli.
Che Guevara: a volte mi chiede se ho da accendere, e io devo rubare l’accendigas dal cassetto della cucina, e ricordargli che non si fuma in casa. Lui se ne frega, e continua a leggere Goethe a piedi nudi, con un sibilo impercettibile nei polmoni. O forse è il foro della pallottola, nel petto. Hai la maglia bucata, gli dico. Sapessi il cuore, mi risponde invariabilmente.
Totò: è una specie di zio, da sempre. Hai aperto la parente? Mi chiede qualche volta. Sì, zio totò. E chiudila allora, mi fa dall’altra stanza. Io sorrido, e chiudo lo sportello della zia.
Leonardo: sta costruendo un’Arca molto laboriosa, che riassume tutte le sue macchine da guerra e da bellezza, con una polena Monna Lisa che gli consentirà di solcare i cieli, e molte biciclette stellari che ci consentiranno di girare attorno alle costellazioni, e prenderne nota per i suoi disegni a china.
Osvaldo Pugliese: suona i suoi tanghi ogni sera, spostando appena la rosa rossa posata sul pianoforte. La yumba rompe i muri della dittatura, piano piano, in quattro quarti.
Mia trisnonna Carmosina: dà ordini come se avesse ancora ottant’anni, e una famiglia mezza umana e mezza no a sua completa disposizione. Legge il futuro, e, cosa più sorprendente, il passato. Non il suo, ovviamente.
Sandra Dee: ha sempre una media di sedici anni, e ci rammenta che il mondo ha, costantemente, sedici anni, vaniglia e legno verde.
Jane Austen: è un punto di riferimento per noi ragazze. Basta sollevare il telefono e chiamarla: conosce tutto degli uomini e delle donne. Quindi non ci sorprende che continui a non maritarsi. “Figuriamoci – dice lei – devo ancora finire il capitolo".
Pablo Neruda: se, poniamo il caso, ti serve una parola, lui ce l’ha. Una parola banale come “cesta”, “ciliegio”, “gatto”: cercala, e poi vedi cos’è capace di farci, lui. Passa il suo tempo in un terrazzo invaso da rose carnivore, polene sospirose e sale oceanico, ma non ti dirà mai che non ha tempo per te o la tua collezione di domande.
Sono incontestabilmente morti:
Gabriel García Márquez: morì appena finito di scrivere L’amore ai tempi del colera, e fu portato via in segreto da aironi azzurri e scimmie equatoriali. Qualcun altro continuò a scrivere libri in caduta, come le macerie di una casa amata. Ora c’è pure uno che compie gli anni e fa gesti d’arcivescovo dai balconi, ma non sa niente del portico sigillato dalle gardenie dove noi lo aspettavamo ogni pomeriggio.
Ralph Fiennes: morì durante la lavorazione del Paziente inglese. Lo seppellirono nella grotta, assieme ai graffiti e alla lettera di lei piena di fiumi e alberi che risalgono le vite.
Meg Ryan: ha conosciuto Harry, ha avuto un sacco d’insonnia ed è rimasta vittima d’un cappuccino rovente in un sobborgo residenziale.
JK Rowling: ha cominciato col rifarsi le tette, poi è passata alle cosce, alle mani, i piedi, le orecchie, i fianchi, gli aggettivi, il naso, gli zigomi, gli avambracci, gli avverbi di modo, i verbi indicativi, poi i congiuntivi, la pancia, il collo, il sedere, la schiena. Il giorno che ha perso pure l’ultimo pezzettino davvero suo, ha finito di scrivere Harry.
Salinger: è morto più o meno negli anni Cinquanta. Ma non diteglielo. Lui non ne sa niente, e comunque non sarebbe d’accordo.
Juliette Binoche: poverina, che pena mi fa. Cerca di nascondere il pallore sotto ceroni, commedie, interviste visàvis. Niente. E’ cerulea, com’era nel Film blu, dove è ancora seppellita, malgrado lei tenti di scalare gli specchi e uscire, ogni volta.
In effetti, l’elenco sarebbe ancora lungo, ma c’è anche tanta gente che di sicuro non conoscete (miei colleghi, molti parenti, diversi politici, intere città). Comunque vi invito a farlo: contate i vivi e i morti, contateli. Sarà sorprendente, sapere quanta gente morta cammina in giro, e quanta gente è così viva che la morte non ci può nulla. Nulla.