
Ebbene sì, dopo quattro giorni di attenta lettura della rete, dico la mia sulla puntata 3 della stagione 8 di Game of Thrones, che, se non altro, è destinata a rimanere come quella che ha prodotto la più alta densità di post, messaggi, recensioni e meme della storia, gloriosa, della serie.
Lo dico subito: mi è piaciuta, certamente, ma non come mi era piaciuto, fin qui, tutto o quasi l’universo Got. Mi è piaciuta, e sto per scrivere l’avverbio chiave, convenzionalmente. Come mi sono piaciute centinaia di altre cose, e non nel modo specialissimo in cui mi piaceva una serie che aveva – prima di tutto – il potere immenso di sovvertire ogni regola narrativa, mettere in crisi ogni certezza, ogni legame sentimentale coi personaggi. C’è a mio avviso solo un’altra serie tv a cui riconosco lo stesso passo ardito e lo stesso potenziale “distruttivo”: Gomorra. Ho sempre detto che Gomorra è Got senza draghi, e oggi che, peraltro, trasmesse dallo stesso canale e pubblicizzate assieme, conoscono una stranissima sovrapposizione (e non vi dico la sovrapposizione di trame ed eventi, che ha dello stupefacente), le chiamo scherzando Gotmorra, ma non scherzo granché.
La cosa che mi aveva avvinta, di Got, è la potenza con cui sono stati scolpiti i personaggi (e qui c’è poco da fare, l’impianto è quello del ciccione maledetto, George R.R. Martin, che il Dio della Luce lo abbia in gloria e Ciro Di Marzio lo protegga), le loro motivazioni umane troppo umane che l’elemento magico non sovverte e sovrasta mai ma cerca, maldestramente a volte, di servire, sempre insidiato dall’errore e dalla cecità umana (e questo ne fa una narrazione sul potere e non sul potere della magia). Non è nemmeno la lotta dei buoni contro i cattivi (semmai, come in Gomorra, la lotta dei cattivissimi contro i pessimi), ma il confronto di personalità vaste, con zone d’ombra e di luce che articolano ulteriormente il confine tra giusto e ingiusto, ragioni di stato e stati della mente, psicopatologie individuali e tabù collettivi, politica e religione. Dove si apprezza, assieme, l’appartenenza eppure lo scarto, il riconoscimento eppure il sovvertimento, l’adesione condivisa eppure la capacità di deviare verso un percorso tutto individuale.
Ci sono personaggi che evadono dai recinti e altri che dopo lunghi giri tornano a casa, ma il nostos è esso stesso un’epica, e non si torna mai a Itaca come si era partiti: i ritorni di Jon Snow, di Arya, di Jorah, della stessa Daenerys sono tutti diversi tra loro, così come il tornare sui loro passi di tanti altri, da Jaime a Theon (il Gioco del trono comincia a Grande Inverno e l’ultima stagione ricomincia da lì – anche dichiaratamente, con precisi rimandi al pilot).
C’è un femminile potente ma schiavizzato, che trova – pagandole a prezzi sempre molto alti – originali forme di emancipazione dal maschile tossico e attorcigliato sul possesso, del corpo del trono del regno, e quando non lo fa e semplicemente lo replica cade dentro lo stesso buco nero, la stessa vorace Porta della Luna che tutto macina e digerisce e fa scomparire. C’è la divisione verticale del mondo tra ricchi e poveri, nobili e ignobili, che marca profondamente le dinamiche tra individui.
Ma tutta questa bella complessità, che si è lentamente stratificata tra le stagioni, ora è davvero a rischio appiattimento, visto che si corre verso una conclusione, che vogliamo sperare non sarà pacificante, ma che ci piacerebbe non fosse solo inutilmente contundente. Vorremmo ancora – siamo abituati male – le modalità dello spiazzamento, della sorpresa perturbante, della meraviglia dolorosa. Cose che, narrativamente, sembrano essersi perse a favore d’una grandiosità indubbia ma un po’ stereotipata. Che per la serie che faceva a pezzi gli stereotipi è un ben triste contrappasso.
Detto ciò, si può serenamente seppellire – come in una cripta – ogni discussione sulla verosimiglianza tattica della battaglia di Grande Inverno: sì, resta una cosa logicamente inspiegabile come un’intera armata dothraki, per giunta fiammeggiante, sia inghiottita in meno di un minuto da un’orda scomposta di morti che poi, comunque, viene impegnata per ore e ore da tutti gli altri (nemmeno con spade flambè). Però volete mettere l’ondata di trepidazione che corre sui volti (compresi i nostri) quando Melisandre “accende” l’armata e poi il tuffo del cuore quando vediamo le luci laggiù spegnersi? Ecco, quella è la risposta: il saliscendi di emozioni. Le discese ardite e le risalite.
Il fatto che, poi, una volta riavutici, ci siamo detti macheccazz, vuol dire, invece, un’altra cosa: bene ma non benissimo, ci avete presi per un minuto circa (appunto, un’unità di misura di armata dothraki accesa) e poi ci avete buttati fuori dalla sospensione dell’incredulità. Tanto che stiamo discutendo forsennatamente da giorni, su punti sui quali non avremo mai una risposta.
Così come il volo di Arya alle spalle del Night King, la sua capacità di camminare tra i morti in silenzio (ma è il rumore, che li attiva? In biblioteca sembra di sì, ma altrove onestamente non è chiaro).
C’è anche, in rete, la teoria che l’altrimenti inspiegabile urlo di Jon Snow al drago zombie sia in realtà un “Go, go, go” ad Arya, non tradotto nei sottotitoli e di fatto sfuggito al 99 per cento degli spettatori (come quasi ogni dettaglio di quella battaglia, persa tra i pixel e per la quale ci vogliono settaggi degli schermi da commissionare direttamente agli ingegneri della Nasa). Ci può stare, certamente, ma se sfugge al 99 per cento di chi guarda forse non è una buona idea.
Non è la vita, cazzo, è una fiction, e le chiediamo di essere congruente e chiara, e lei ce lo deve.
In altre parole: se devi rappresentare il buio, non puoi mettere il set al buio: devi illuminarlo in modo da farci percepire il buio, ma farci vedere che diavolo ci sta succedendo dentro. Lo stesso vale per il caos: l’unico modo di rappresentarlo, è farlo con ordine. E’ il paradosso della rappresentazione che, mi spiace darvi questa notizia, non coincide con la realtà.
(piccola postilla: Stanley Kubrick per girare “Barry Lyndon” usò soprattutto la luce naturale e, per gli interni, le candele, come si usava nel Settecento: ditemi se c’è qualche scena che occorre schiarire…).

Detto ciò, sì, la puntata non è stata male e ci ha preso, con momenti di vero pathos e malgrado momenti troppo convenzionali. Per dire, magnifica la Mormontina che parte urlando, alta un metro e un bottone, contro il gigante, ma che lo infilzi nell’unico occhio (perché mai poi la doveva portare lassù e guardarla, quando sappiamo che i morti non manifestano alcuna curiosità o interazione col resto del mondo che non sia distruttiva?) è cosa, da Polifemo in qua, davvero abusata.
Ci siamo commossi su Jorah, che cade solo quando la sua regina è salva, e avrebbe resistito ancora chissà quanto per pura forza di volontà (come Beric che sbarra il passo da solo nel corridoio, come Boromir trafitto dagli Uruk-hai); ci siamo commossi su Theon, che quando recupera pienamente la sua parte Stark (e il suo cammino è stato uno dei più drammatici e dolorosi) muore, e muore di slancio e abnegazione; ci siamo commossi allo strano dialogo tra Sansa e Tiryon, che sembrano sull’orlo dell’harakiri e invece, in puro stile Folletto, sgusciano via (ecco, quel dialogo e quel baciamano sono stati un’eco del remoto mondo perduto del ciccione, il Got straniante e bizzarro che conoscevamo e ci aveva catturati).
Ora il mondo magico sembra quasi finito (minchia, una minaccia durata stagioni e stagioni e dissolta così: ci è voluto più impegno per liquidare l’Alto Passero…)(e infatti l’esplosione del tempio e il montaggio della sequenza ci resteranno in mente per sempre, la battaglia di Grande Inverno si può mettere agli atti e dimenticare serenamente), e comincia il regno degli uomini, si torna al vero gioco, il Gioco del Trono: scomparsa Melisandre (ma si può fare qualcosa per recuperare quella collana? Chiedo per un’amica), scomparsi i servitori del Dio della Luce (che a questo punto è contento? Voleva questo? Ha sempre avuto un ufficio stampa di merda, dovremmo consigliargli lo staff di Salvini), scomparsa la minaccia dei morti. Certo, restano le magie di Bran (servirà ancora? Ma sarà solo un oracolo a servizio del potere, ancora del Gioco?), le abilità oscure di Arya (bellissimo personaggio, forgiato con la luce e l’ombra, assieme luminoso e spaventoso).
Ora quelli terribili sono i vivi: Cersei, che forse è incinta e forse no (con il suo riposizionare ogni volta l’alveare da difendere, facendosi ape regina ma che rinuncia al femminile per incarnare un maschile sadico e atroce come quello che l’ha fatta soffrire e schiavizzata; con il suo senso della famiglia paragonabile a quello di Gomorra, per cui si ama, si tradisce e si uccide la stessa persona, fondando sull’appartenenza reciproca ogni bene e ogni male); Euron, che è della schiatta dei disturbati sadici (linea Joffrey, Ramsay, Robert Arryn) ma almeno sa combattere.
Di nuovo una linea buoni-cattivi che, semplicemente, in Got non esiste: esistono schieramenti, opportunismi, motivazioni, distinguo. I personaggi interamente “positivi” sono pochi, e più opachi degli altri: ogni giusto ha dovuto esercitare molte ingiustizie per difendere la sua giustizia; molti giusti, molti innocenti (penso a Hodor, a Shireen, a Talysa, a tutte le vittime dei sadici) sono stati semplicemente travolti e spazzati via degli ingiusti, senza ragione, senza contrappeso, senza redistribuzione del male. L’innocenza è un lusso che nessuno, a Got (a Gomorra), può permettersi.

Sarebbe molto bello se ora non si disperdesse tutto quel malessere, quel senso di ingiustizia e dolore, quella contrizione in cui ci hanno condotti le stagioni migliori di Got (e Gomorra), e ci conducessero a un finale che sì, la produzione ha già annunciato “agrodolce”, ma che speriamo non sia un aroma artificiale con retrogusto di mirtillo. Vogliamo un pasticcio di Frittella, pieno di frattaglie, cotto nel burro e condito di lacrime e spezie amare. Gusto Got, senza retrogusto di redenzione, di giustizia, di fanservice.