Wagner sonnecchiava nella penombra. Ho chiesto permesso, con una voce così sottile che s’è persa prima dello stipite, e la porta c’ha cigolato sopra, vecchia di cardini venerabili. Wagner non s’è svegliato, d’altronde: è restato sulla poltrona, avvolto nella giacca di velluto e passamanerie dorate, a dormire sopra qualche sogno di scale armoniche ascendenti, o di Nibelunghi. La primavera incontinente di Palermo, intanto, s’infiltrava sin nel centro della stanza: la profusione di turchese e verde che preparava il contrattacco al tramonto stillava impercettibile dalla commessura del soffitto, dai rosoni di gesso, dalla testa di fanciulla in marmo cristallino, dal pianoforte a coda dai nervi scoperti e il suono d’osso.
Ho tossicchiato, per svegliarlo, mentre giravo per la Sala Wagner, dentro l’albergo, il Grand Hotel et De Palmes, piantato nella storia di Palermo come una palma secolare, connesso misteriosamente ai suoi passaggi segreti (uno porta alla chiesa anglicana di fronte, angolare e puntuta, recintata fittamente, che alza le sue vette e offre i suoi miracoli di persuasione pure di notte). Wagner dormiva con un russare basso, piacevole, la barba bionda sul mento teutone, pensieri indecifrabili, e in qualche modo greci e latini, sulla sua fronte vasta.
Ho rubato una carpetta di fogli, sui quali non è apparso nulla: eppure credevo che la fuga di parole e suoni che s’avvertiva distintamente – quando le porte creavano correnti nei saloni – potesse in qualche modo imprimersi. Il vecchio piano scordato gemeva nell’angolo, ossuto e scortecciato ma ancora potente: l’abbiamo tentato, ma non accettava se non musiche antiche, musiche riconoscibili per lui e le sue giunture stanche. L’oro pallido del Reno si poggiava sulla foce dei fiumi siciliani mezzi asciutti, nel riverbero del tardo pomeriggio di sabato, prezioso come seta vecchia.
In fondo alla sala si faceva vento con un libretto d’opera il barone Di Stefano.
“Voscienza benedica” ho provato a dirgli col mio accento dello Stretto.
S’è subito alzato in piedi e ha accennato un baciamano tiepido, perfetto di cottura. Ho sorriso, e mi mancava un ventaglio.
“Comodo…” ho detto, un poco rossa in faccia: non so trattare coi nobili siciliani, così radicati e arcaici, così barocchi e bruschi di finezze.
Ha fatto un lieve inchino, ha mormorato: “Barone Giuseppe Di Stefano di Castelvetrano ai suoi comandi”. Son stata tentata di chiedergli di svegliare Wagner, o almeno di portarmi a vedere una lezione di politica di Crispi – in un qualche salone d’intorno – o ad assaggiare una delle dodici portate servite, quella sera, a Vittorio Emanuele Orlando.
Il barone, ch’è vissuto cinquant’anni senza mai uscire dall’albergo, perché aveva paura che fuori l’ammazzassero – era come una chiesa, una chiesa laica, o forse no, sacra d’una religione più antica, con palme, corsi d’acqua, offerte di fumo e sangue, divinità brune acquattate nel basamento del palazzo, nella roccia sottostante – sapeva tutto, conosceva ogni cosa. Passava i saloni in rassegna, sera dopo sera, e riceveva gli amici: Guttuso che rubava un ricciolo liberty e lo disfaceva in ferro e fuoco, Maria Callas, la faccia di Persefone, che beveva succo d’arance amare e tenebre mediterranee. Ma se gli dicevano: “Barone, andiamo, andiamo fuori” diventava pallido, e diceva: “Ennò, che io sto bene qua”. Le stagioni gli giravano intorno, al barone e all’albergo e a Wagner addormentato nella sala, e poi di nuovo.
Ieri era primavera, la primavera selvatica di Palermo. La pietra rosa assorbiva la luce rosa e la restituiva, contrastando i turchesi e i verdi della spianata sul lungomare, dopo la foresta d’alberi maestri del porto, dopo il deposito delle locomotive, dopo la foce secca del fiume.
Avevo appuntamento con Leonardo e le sue macchine drizzate nel laboratorio: anche lui stava in un angolo, assorto in calcoli scritti col sangue su un codice. Nel mezzo della trigonometria fiorivano l’occhio della Gioconda, un giunto cardanico, una bicicletta, un deltaplano, una macchina del tempo. Le sue macchine ricostruite (dagli artigiani, in legno, corda, canapi, ferro) macinavano movimento, combattevano l’impossibile e lo vincevano. Il loro tramestìo era identico a quello d’uno sciame, d’un alveare, del sonno lieve di Wagner nella sala vuota, davanti al barone assorto nella sua propria, ronzante condanna.
Sono stata due giorni a Palermo, perché dovevo visitare questa mostra di queste macchine qui, e perché ne avevo bisogno, e ogni volta m’emoziona. Non finirà mai di dirmi cose, cose immense e incredibili alle quali credo sempre.
(ah, ho anche comprato due buccellati, farciti di luce rosa, primavere di grano, inverni canditi, lastrico, una casa di colombe, balconi liberty che sporgono nell’ombra, marmellata d’arance, acanti, terracotta).