“Signora, lì non si può entrare” m’ha fatto, perplesso, Masino l’operaio, indicando la stanza in fondo al corridoio.
“Come, non è aperta?” ho replicato, ma vedevo da me che la porta era scostata, e la luce, filtrata due volte dalla veranda e dai vetri colorati – l’unica stranezza nell’architettura civile e umbertina del palazzo, l’unica mossa falsa del liberty in punta di piedi che si teneva in bilico sui terremoti, sulla sintassi di voragine che regolava da sempre quei luoghi – si stampava al contrario sulla parete di fronte. Nel punto esatto in cui si posava, mostrava talenti da caleidoscopio. Avevamo frammenti della Sainte Chapelle (in quel momento del giorno in cui il sole accende tutte le vetrate e ti ritrovi trafitto da centinaia di colori incandescenti), banchise antartiche, officine di Murano, lanterne magiche viste da dentro. Era il nostro punto di cedimento, da cui s’infilavano di soppiatto tutte le cose irregolari. Era il nostro ombelico, il nostro occhio sacro.
Un punto necessario in ogni casa.
E oggi il punto era esattamente lì, dov’è sempre stato. Vedere riflessa sul muro – in quel punto preciso – la concentrazione dei cristalli, la loro seria fronte di piombo, la qualità sonora della loro trasparenza m’aveva confortata. Le porte, gli occhi restavano aperti.
E invece no.
Quando ho fatto per entrare nella stanza in fondo sono rimbalzata fuori. Una massa morbida e trasparente non mi consentiva d’entrare. Ho provato spingendo avanti un braccio, in un gesto d’interrogazione e resa che speravo la stanza apprezzasse. Niente. Ho provato con le braccia inerti lungo i fianchi – come forse nessuno aveva mai affrontato una soglia, nella mia casa e nella mia famiglia – con le braccia strette e conserte, con le mani unite come per una preghiera un po’ sbilenca (da noi si pregava coi pugni chiusi, semmai, con la faccia di lato, con le mani spalancate, col coltello). Ho dato pure un calcio, a un certo punto.
Masino, incoraggiato dai miei tentativi, ha provato lui pure. Professionale, ha tentato una spallata, una spinta, un attacco a testa bassa. La stanza lo respingeva.
S’è pure inventato una finta di corpo, mentre parlava con me di colpo s’è voltato nell’aria, con la grazia d’un Nijinsky terribilmente pesante, e ha sferrato una sforbiciata che ha fatto rumore di metalli. Niente da fare.
Ci siamo guardati nella penombra del corridoio. Il punto luminoso, l’omphalos ardeva per suo conto, guardandoci di rimando.
Lo so. Avevo fatto male a raccogliere tutti i gesti dentro quella stanza. S’erano incollati, trasparenti e semiliquidi com’erano adesso, aeriformi e lievemente opachi com’erano prima. Li avevo raccolti dappertutto: appesi agli stipiti, sulle cime degli armadi, dietro il battiscopa. Tra le coperte – moltissimi – negli angoli, nei punti di svolta che la mappa sensibile della casa segnava con discreti segni di riconoscimento. Sui balconi, attorno alla bocca dei vasistas, lungo la vetrata panoramica. Attorno alle soglie, molti: gesti d’indecisione, passi che andavano e venivano, passi che non si decidevano a entrare, che non riuscivano a uscire. Sotto il trespolo delle flebo, sul letto antidecubito, attorno alla sedia a rotelle. Gesti forti, gesti nascosti (che prendono moltissimo spazio, vaporosi e incogniti come sono), gesti accennati. S’erano appiccicati tutti assieme, e ora non c’era più spazio per gesti nuovi. Non lì dentro.
“Signora – m’ha detto Masino Nijinsky, comprendendo – era proprio ora d’andare via”.