
Anna.
Un nome interminabile: da anni ci stipo dentro cose, e c’è ancora posto. Da anni ci giro attorno, e non ne vedo i confini. Meridiani e paralleli vertiginosi vorticano dentro e fuori la sua superficie liscia.
C’è sicuramente un prato, e una scampagnata di almeno ottant’anni fa, quando mia nonna Anna saliva – piena di grazia – verso la gloria primaverile d’un mezzogiorno, ad una latitudine incalcolabile, più a Est dell’Occidente, più indietro della guerra, più avanti dello Stretto, nella Calabria remota e retroversa, la cuccia millenaria dell’animale che dorme nell’acqua bassa, voltandosi ogni tanto nel sonno, come nel 1908.
Nonna Anna aveva un vestito di mussolina bianca, denti abbaglianti, una smemoratezza divina sulle tempie attraversate da vene azzurre. Non sapeva niente, non aveva visto se non l’orizzonte breve del paese, il circolo arancio del sole che cadeva dalla stessa parte ogni sera.
Nonna Anna aveva i vestiti neri di vedova, poi, e una treccia che girava tre volte attorno alla testa, sopra gli occhi che ormai erano pieni d’acqua celeste.
Una volta le incontrai entrambe, Nonna Anna giovane e Nonna Anna vecchia, e altre ancora, Anne della catena ininterrotta: eravamo al cimitero, lei cambiava l’acqua e disponeva i fiori su una tomba. Era chiaramente un incantesimo: quei gesti servivano a tenere il mondo al suo posto. Io vedevo lei, e poi me stessa sulla sua tomba, a ripetere i gesti e l’incantesimo, e insieme vedevo lei passeggiare al braccio mio e di se stessa, prima e dopo, sul prato fuori dal paese e nel cimitero cittadino sorvegliato da cipressi e angeli di pietra. Vedevo gli incantesimi che si ripetevano, come le sillabe, senza fine: non capivo dove finiva il mio nome e cominciava il loro.
Ci ho fatto cadere centinaia di cose, in quel nome. Qualche volta ho scucito un punto, un po’ dell’imbottitura è uscita fuori, l’ho rammendato malamente, ci ho fatto una bruciatura. C’è una macchia di sangue, in un angolo,e faccio sempre in modo che non si noti, ma io so che c’è: se mi guardano, lo spingo indietro, parlo a voce alta, muovo le mani per distrarre gli altri, tenerli lontani da quell’odore di ferro che io sento così bene.
La mia amica del cuore, da ragazzina, si chiamava Anna Patrizia, ma la chiamavano solo Patrizia: Anna era tutto il resto, ed era il nostro patto, il nostro segreto.
Ci incontravamo a metà di quel nome, ben celate agli occhi del mondo, e tutto poteva accadere. In realtà, avevamo solo il battito dei nostri cuori, lì dentro, ma lo prendevamo per il ritmo della terra, lo sentivamo come un suggerimento, una profezia, una scrittura diretta a noi due. Passavamo il tempo – distese all’ombra del nostro nome – a decidere cosa non saremmo state. Non saremmo mai state decorative, ragionevoli, tattiche. Non saremmo mai state azzurre, vigili, misericordiose. Non saremmo mai state caute, diplomatiche, longitudinali. Spostavamo col pensiero gli oggetti dentro il nostro nome, e credevamo che fosse un potere vero. Ma non funzionò mai più, da nessun’altra parte: la chiave non apriva alcuna porta, e il corridoio ci riportava sempre a noi stesse.
Ho spalancato le finestre, di quel nome. Alcune danno su luoghi appropriati, fruttuosi, confacenti. Altre sono cieche. Alcune sono solo dipinte sul muro, ma non sono quelle che amo di meno.
La mia migliore amica, ora, si chiama Anna. E’ la cosa più profonda che condividiamo: un pezzo d’anima – che, come tutti sanno, è un corpo – della stessa sostanza del nostro nome. Qualcosa come un tocco, alla cieca, con invisibili polpastrelli. Uno sguardo senza essere visti, l’odore di una città, il sentimento del mare, il linguaggio segreto dei semi, lo strazio dei compassi necessari, l’esattezza e le lacrime. Sono tutte cose che ingombrano il nostro nome, e se non stai attento puoi dar loro un calcio, entrando. Ma sta’ tranquillo: molte cose sono impalpabili, quasi tutte sono infrangibili.
A volte io trovo qualcosa, camminando al buio in un corridoio, e le dico: "Questo è mio o tuo?", e lei dice: "Tutti e due", ed è così. Allora apro un cassetto a caso, del nostro nome, e lo metto lì, dove potrò trovarlo più tardi, o lo troverà lei, prima o dopo.
Non lo nego: a volte avrei preferito un nome di consistenza cremosa, soleggiato, senza intercapedini. Un nome dove non c’è niente da scoprire, solo qualche ninnolo da spolverare.
Un nome al quale non rischi di bussare e sentire la tua stessa voce che chiede: "Chi è?".
Ma poi mi volto, sorrido, e busso, e mi sento chiedere: "Chi è?", e rispondo – in coro – "Anna".
ps: per l’esimio fuoridaidenti, che aveva chiesto il nome di madame brioche. E per me stessa, poiché mi riconosco ormai irreversibilmente in quelle sillabe: è l’unico nome che non ho scelto, ma mi appartiene per antica occupazione di suolo e d’acque.
L’immagine, quel Klimt di sfarzo orientale ma come ammalato d’un languore tutto europeo, e pure innervato d’una remota arguzia, è Anna come mi piacerebbe che fosse. In uno dei sottoscala del nome, in fondo, ciascuno di noi conserva la propria immagine e somiglianza, per quanto dissimile appaia o sia.
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