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Posts Tagged ‘bestiario’

L’anno nuovo cominciava sempre il giorno prima, almeno, e qualche volta anche due giorni prima. Quando si compravano le munizioni.
Quelli del secondo piano scambiavano informazioni e tiravano sul prezzo con l’ambulante, su “candele romane”, “venti di guerra” e “tuoni di mezzanotte”. Non erano trattabili, ovviamente, il “razzo lucifero” e la “bomba kamikaze”.
 Emiliano Zapata, ovvero il cugino Bartolo, portava in giro le sue cartuccere da trecento pezzi fino dall’antivigilia di Natale, e li vendeva negli angoli, senza porto d’armi: “barrage 120” con botto e scenografia, razzi “Soviet” a decollo verticale e un assortimento di “supermagnum” con minimo tre grammi di polvere da sparo, che sennò nemmeno si sente.
 I cugini più grandi non dicevano niente, e assaporavano il peso pieno delle “cipolle”, 125 grammi precisi di esplosivo a basso potenziale confezionato nella plastica (che oramai il cartone pressato non lo voleva più nessuno) e con la miccia legata stretta ad almeno dieci giri, gialla e compressa come una tigre che aspetta nell’ombra.
Loro non avevano il permesso, ancora, d’aprire la vetrina delle armi, dove riposavano, a canna in su, i fucili di famiglia. E pochissimi di loro sapevano altre cose, cose di armi seppellite nella terra fresca, brune e abrase e deposte come delicati semi di guerra.
  E poi, tutti cercavano i modi più propri, per arrivare a mezzanotte: spilli, capretto ripieno di capretto, rancori familiari sott’olio e sotto sale, litigi aggrovigliati negli angoli e intermittenti come luci, roncole, biglietti amari scritti con inchiostro selvatico e succo di prugna, sgarbi, fiati pesanti. In tasca, nel cuore, appesa alla cintura o alla fondina, chiunque aveva almeno un’arma, un segreto, un modo.
Si sorridevano, lungo la tavolata, con i canini luccicanti.
E sì che c’erano anche olive ripiene, giambotta di melanzane, pauro murato nel sale, lenticchie rosse e un’eternità di fichi secchi mandorlati.
  Alle undici e trentacinque passò la barca a prenderli, come ogni anno.
Si sistemarono ondeggiando, i giubbotti stretti e abbottonati al collo, i cappelli calati fino agli occhi: visti così, nella barca, non si sapeva proprio chi erano i vecchi e chi i nuovi. Erano tutti giovani, eccitati dall’odore d’olio e di ferro. Erano tutti vecchi, e l’avevano fatto mille volte, come ogni cosa.
  Nel centro dello Stretto l’aria era così pulita che le sponde si toccavano la fronte, casa per casa. Le navi traghetto erano immobili, i fianchi larghi fermi e ancorati, e pure loro aspettavano. La luna s’era assentata brevemente, o osservava da dietro il velo, gli occhi come fessure.
  Eccoli.
Tutti e due, l’anno nuovo e l’anno vecchio. Pure loro difficili da distinguere, nel nero della notte. Volavano vicini, le grandi ali di falco spalancate, i becchi appuntiti sulla faccia d’angelo. I corpi pieni di nervi si tendevano, e non si capiva bene quale fosse dei due quello così vecchio da dover morire proprio quella notte lì, precipitando nel mare liscio e freddo e piatto come uno specchio.
  Quando furono proprio nel centro dello Stretto, la mezzanotte partì come un’onda dai due lati opposti, dall’altopiano dell’Aspromonte che vegliava basso e coperto di nuvole e dal corpo di selce dell’isola triangolare, o forse dai suoi vulcani sprofondati. Un’onda nera che fece un rumore impressionante, coperto – per fortuna, come avveniva ogni anno – da un clamore d’esplosioni.
  Dalle sponde, dalla barca cominciarono a tirare sui falchi in volo: doppiette, canne mozze, fucili caricati a lupara. E anche mortaretti, mezzebotte, track con tronetto. Razzi cinesi, a cuore rosso, o giallo a colpo forte, mortai a sei colpi con base in legno. Raudi, mephisto e colibrì a scoppiettìo. Zeus a detonazione forte e cobra con la miccia. Una magnum sparò un colpo isolato, un kalashnikov di vecchia fabbricazione disegnò in cielo peonie, pesci , uova di drago. Un tintinnìo di bossoli si poteva sentire appena, dietro e sotto i boati.
  Una delle due sagome in volo s’impennò di colpo, chiuse le ali muovendo un’aria torbida e precipitò a cerchi larghi, lenti nello Stretto.
L’altro non si voltò nemmeno, un attimo dopo era sparito.

auguri a tutti noi, che siamo in volo di notte, e ci tirano sempre addosso, quei bastardi. 

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  I feroci condomini sono di pattuglia sin dal mattino presto.
S'aggirano entro i vialetti, tra le siepi di gelsomino e pitosforo, lungo le cancellate di ferro battuto. Forse nemmeno dormono, contentandosi di cullare il fucile a canne mozze sul dondolo del terrazzo grande, appisolandosi per un istante o due in faccia al plenilunio spettacolare che non sta lasciando più i nostri cieli.
 Dormono per alcuni secondi, fino a che il peso del sonno gli fa cadere di lato la testa, e allora drizzano il collo di scatto, e si guardano attorno, ostili. Poi s'assestano sul cuscino con le frange, e riprendono a fare la guardia. Il pitbull di nome Pasquale gli dorme sui piedi, un filo di bava che cola dal muso scontroso. Talvolta si sveglia anche lui, e abbaia a lungo contro il cielo, le stelle e il lago, che di notte è perfettamente immobile e marcisce lentissimo sotto la superficie salata, insaporendo le cozze.
  Il mattino arriva salutato da salve d'uccelli e miracoli sullo Stretto: la luce sorge tutta assieme, da sotto in su, e le palazzine rosa del condominio sono fenicotteri di mattoni che scendono ad abbeverarsi, tra il supermercato che alza con fragore le sue trentotto saracinesche e la fila di cassonetti spalancati dove abitano le mosche luccicanti.
 I condomini fanno la prima ronda entro le otto, otto e mezzo, controllando col decimetro tutti i palmi di proprietà, contando le bouganvillee e verificando la tenuta dei cancelli. Qualche volta li oliano, con lo stesso olio del fucile: il cancello scatta come un grilletto, avanti e indietro. Mitragliano tutti i vicini, poi passano ad attaccare quelli del condominio di fronte, che li beffano ogni anno, con qualche lavoro di trivella ad agosto, con apparecchiature misteriose che disturbano i segnali della parabola, con sacchi di spazzatura di misura irregolare. Quando hanno sparato a tutti, sono pronti a uscire.
  Scendono nel parcheggio e lo percorrono tutto, fino al cortile delle autoclavi, dove i gelsomini stellati e tropicali tracimano, anticipando ogni anno la fioritura. Li guardano con gli occhi stretti, i condomini, perché sono cespugli anarchici che non tengono in alcun conto i millesimi e la proprietà. Meditano sempre di sradicarli, e sostituirli con una rete d'acciaio elettrificata, verde. Ma cazzo quanto costa.
  Misurano i posti auto disposti per lungo, aiutandosi con le mani e con la memoria – non c'è mai giustizia nei metri quadri, accidenti – e poi passano alla zona a spina di pesce, verificano che gli specchietti siano correttamente allineati, e i copertoni non escano dalla striscia di biacca dipinta sul selciato, pronti a gridare: sconfinamento! Qualche volta beccano uno nuovo, o un visitatore, o un vero abusivo capitato per caso che ignora tutte le leggi della ripartizione dello spazio sociale, la geometria censuaria e decimale e bizantina che regola la dimensione delle vite. Allora i condomini erga omnes respirano pesante e scendono in guerra: sparano col mortaio regolamenti, strappano la sicura di circolari che scoppiano con grande fragore, muovendo le foglie della palma perenne. Qualche volta caricano la mitraglietta coi verbali delle assemblee condominiali. Non fanno prigionieri. Nelle case ombrose, sotto le pergole di legno attorno a cui s'attorciglia la vite americana, dietro le tende di tessuto, i vetri camera e gli infissi anodizzati, le mogli preparano le gocce per la pressione, in un bicchierino di carta. Sorridono il loro particolare sorriso silenzioso delle mogli.
 I condomini intanto si sbracciano, disegnano con un dito sul muro mappe catastali di alta precisione, e un po' d'intonaco si sbreccia e cade, e questo è un segno molto chiaro. I condomini non smettono fino a che il cancello non s'è chiuso dietro l'estraneo, e la proprietà è salva. Allora tornano in casa, a spiare per l'ultima volta tra le fessure della tapparella, mentre un silenzio di calce secca riempie di nuovo il cortile che si prepara al mezzogiorno.
 Le lucertole passano rapide, saettando tra le siepi, entro camminamenti nascosti tra la precisione dei confini e i punti millesimali del condominio che farebbero morire di disperazione i condomini, se solo potessero controllarli tutti. Buchi dei mattoni forati, passaggi celati nel cuore dell'oleandro (la pianta preferita dai condomini: rosa e velenosa, come un sorriso di buon vicinato), cancelletti dai denti larghi: tutto cospira contro le recinzioni con cui i condomini consacrano il loro inalienabile diritto alla proprietà, alla sicurezza, alla felicità.
  Piazzano sui muri cocci aguzzi di bottiglia, filo spinato, lance appuntite che spartiscono l'azzurro implacabile del giorno. Sistemano negli angoli i fili senzienti dell'antifurto, le fibre occhiute che moltiplicano i loro sguardi, la loro vigilanza, il loro febbrile possesso, che – dicevano i romani –
va dalla terra al cielo e forse pure oltre: qualche volta guardano dritto nella luna, che è così vasta e gialla, in queste sere, da poggiarsi in bilico sul pilone, con un rumore sgonfio di mongolfiera, e pensano a tutta quella proprietà indivisa, tutto quel terreno da recintare, tutti quei crateri sprecati.
Allora sospirano e muovono il piede, e il pitbull grugnisce, nel sonno.

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Sarà la crisi, ma quest’anno le mariecristine scarseggiano, come i ricci di mare e gli eppiauar gratis.
Rare teste mesciate, gioielli appena laminati e asciugamani di Missoni fasulli denunciano la preoccupante sparizione delle mariecristine dalle nostre spiagge, forse dalle nostre vite.
Ma altri personaggi s’affacciano alla ribalta balneare, per dimostrarci che la vita è sempre la migliore delle fiction.
Per esempio Baby Jane.
E’ un incrocio tra Bette Davis e Mirigliani, e si tumula di solito nel lettino accanto al nostro, per interminabili sedute di abbronzatura ai limiti dell’autocombustione. Infatti è ebano scuro con sfumature d’incendio. Ma i riccioli biondi sono sempre perfetti, trattenuti da mollette di strass e fiori carnivori di plastica fucsia che fanno pendant col bikini fiorato pesante, come un giardino pendulo di Babilonia o un’aiuola della stazione centrale.
Però è simpatica, ride vezzosa e dice sempre: “Non ci credereste mai che ho sessantaquattro anni”. Infatti non ci crederemmo mai. Ma pensiamo che solo il Carbonio 14 potrebbe stabilire con certezza la sua datazione.
Quasi di fronte sta Lady Godiva-Visnù, in posa da trimurti con le sue ancelle, la bruna anoressica e la bionda tormento. Ha i capelli più lunghi che io abbia mai visto, le arrivano al ginocchio e lei li tira, li avvolge, li annoda come i cavi delle navi traghetto. Poi ne fa un cono assiro che si appunta sulla testa, e siede ieratica nel lettino di centro, tra le due cortigiane che le fanno vento con la testa e le servono caffè freddo rituale, ghiaccioli di menta e marlboro. Io la guardo affascinata, e qualche volta le presenterò anch'io un’offerta. Una medusa morta, o un panino del chiosco col prosciutto antichizzato, o una bottiglietta di tè che qui costa quanto la mirra.
A volte scendono in acqua con circospezione; Lady Godiva scruta tutto il litorale, dà una scossa d’assestamento al seno (che è una quinta coppa effe) e si leva in piedi, ondeggiando come nelle processioni degli elefanti. Le ancelle si mettono ai lati e la scortano in acqua, salmodiando.
Quando s’immergono, succede qualcosa. Forse lo Stretto, che è un vecchio mare sacro e suscettibile, si rivolta nel fondale e rimescola le correnti. Io sospetto che sia invidioso.

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Ieri – nel girone dantesco della spiaggia di domenica pomeriggio – l'ho saputo con chiarezza: io odio la gente almeno quanto amo l'umanità. Sopraffatta dalla vergogna, me ne sono scappata a casa dove, in fondo, c'era pur sempre gente, ma almeno me la sono scelta e in un caso persino fabbricata da sola.
E dire che ero andata al lido degli anziani, quello dei cinquantenni diroccati ma ancora idealisti – per intenderci, quelli che ieri erano con me a fare il sit-in davanti alle trivelle, ridicoli ma temibili avamposti del Ponte delle bugie – quello delle famiglie multiple (noi laici abbiamo un gran senso della famiglia, come sanno tutti), quello che una volta si chiamava Legambiente ed era una forma di resistenza umana e balneare ed oggi è pressoché indistinguibile dagli altri lidini geneticamente modificati con dosi di eppiàuar e calcio saponato e musica tekno fino al bagnasciuga e oltre.
Ma non c'è scampo, alla televisivazione coatta delle nostre vite, e dunque la domenica ha pian piano assunto la sua dimensione tragica di reality balneare, le sue caratteristiche di alveare furioso dove è abolita ogni distanza prossemica (e talora pure ogni traccia di deodorante), la sua protervia di campionato delle molestie attive e passive.

Erano un milione circa, equamente distribuiti in centocinquanta metri di litorale. Piantavano nella sabbia mozziconi, bucce
d'anguria, cingomma masticata, chiodi, bambini. Giocavano a pallone, a palletta, a tennis, a pingpong, a rugby colpendo a caso tutto quello che si muoveva, nuotava o respirava.

Scendevano in acqua con la grazia dei bufali muschiati, e restavano
nella pozza a celebrare amori, gossip, deiezioni vicendevoli.

Lo Stretto, per giunta, che è un vecchio mare insofferente e
'mpituso, per dispetto secerneva pantani, o stagni, o correnti maligne, o flussi d'immondizie flottanti d'incerta provenienza.

Il tutto sovrastato dagli altoparlanti che altoparlavano incessantemente, distribuendo la democrazia ottusa e livellatrice del rumore che chiamano musica, che chiamano spot, che chiamano jingle, che chiamano – sigh e sob – parola.

Io ero persino affascinata, da tanto orrore, e ho resistito finché ho potuto. Poi mi sono detta: sei sempre la minoranza, povera te. Ho preso la borsa e, scansando la lotta grecoromana dei bambini accanto e il fuoco amico delle parole crociate della signora di lato (che risolve solo quelle a due lettere, tipo “sigla di Reggio Calabria”, oppure “Iniziali di Totti” e passa il resto del tempo a chiedere a me “capitale di Sao Tomè”, “il dramma scritto da Ulderico Mòzzichi nel 1765”, “nome del cugino primo di Stefano Bartezzaghi”), bombardata da una canzone che ricordava la sala macchine del polo siderurgico, sono scappata, chiedendomi dove ho sbagliato.
Ma lo so, dove sbaglio: dovrei diventare ricca, comprarmi una villa romita immersa nel silenzio e contemplare da lontano il mio amore per l'umanità, a distanza di sicurezza dalla gente.

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C’è sempre una Clerici, o molte, nelle vite di ciascuno di noi.

Io ne ho conosciute quattro o cinque. Chessò, la vicina di casa, Francadisopra (le vicine, come voi ben sapete, si dividono in Francadisopra, Teresa la cartomante, Nucciadisotto, la fidanzata del prete, Milleunanotte), è precisa la Clerici ma coi capelli lisci: si fa la tinta con le vernici di automobili, si trucca coi lampostil, ma tanto c’ha la pelle d’un dinosauro carnivoro, che pure splende come un Botticelli al mattino, o una fresatrice nuova. Dice a tutti che c’ha una 42, ma non dice dove (la caviglia). Però è simpatica, Francadisopra. A piccole dosi ha un suo umorismo, un suo personalissimo kitsch assai vitale.
Come quando sostiene che basta appendere bene la biancheria e non occorre stirarla (e suo marito va in giro stropicciato come un exit poll delle primarie), quando dice che il rosso le sta bene, e infatti sembra che stia per prendere fuoco (e qualche volta di certo scoppierà un incendio, e brucerà tutta Francadisopra, illuminando il quartiere per ore e forse per giorni).

 Oppure la professoressa. Una Clerici malvagia, diciamo, con le tette a scoppio nel tailleur profilato d’alluminio. Perché, diciamolo, c’è anche qualcosa di malvagio, in quella donna, ma così glitterato, così riccioluto, così immerso in una nebula di Nonna Papera che quasi passa inosservato. La professoressa no, invece: ha le unghia fucsia ma rapaci, uno sguardo calcolatore mascherato da distratto, una vaghezza cinica che solo uno sguardo in 3D può smascherare.

  La sorella di mia cognata, poi. E’ burrosa, ma forse non è burro: è margarina, miscugli di policlici aromatici e grassi industriali trattati col colorante bianco. Veste solo di paillettes (e ce ne vogliono interi capannoni, per un abitino), con scollature pericolose come crepacci di San Fratello. Porta tacchi dodici che le ingrippano i polpacci, e ogni passo è un’invasione della Polonia: crede in un appeal definitivo, anzi micidiale. Come una mucca Carolina ogm con le zanne d’una tigre a sciabola.

 

 Infine, ci sono tante Clerici, e tutte ci fanno paura. Il fatto che all’Italia piaccia tanto (anche ieri Sanremo edizione "sauri & ope")(do you know "sauri & ope"?) fa pensare cose assai sinistre, anzi assai destre: che l’Italia sia pure lei una Clerici?

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  Ebbene sì, ieri si sono consumati – nello stesso giorno – due dei più temibili riti estivi: il primo sabato d’agosto e la serata musicale condominiale a bordopiscina.
Il sabato era molto sabatesco: nel villaggio di contenzione l’aria leggera era traforata soltanto dal canto irriducibile del martello pneumatico (l’edilizia qui è governata da Penelope: si costruisce per demolire e ricostruire, ricostruire, ricostruire), la piscina era distesa nel suo azzurro imparziale sotto i vapori di cloro, il sugo ribolliva pianissimo nei tegami (una tenue traccia odorosa risaliva i vialetti, basilico cipolla rossa origano olio), mentre altrove già si confezionavano le gamelle da spiaggia (pasta ‘ncaciata, gattò di patate, panini con la mortadella pallida). Un sabato d’agosto morbidissimo, invitante. Appunto, erano invitati proprio tutti. E ci sono venuti.
La famiglia francese fosforescente, cortesissima, con un numero imprecisato di bambini armati di autentici attrezzi da cantiere, che subito hanno scavato una buca buona per le fondamenta del Ponte o, al limite, per verificare la teoria degli antipodi (c’è davvero l’Australia, dall’altra parte del globo? E soprattutto, camminano davvero a testa in giù?).
Le mariecristine.
I cofani.
Il gruppo della “cosa frasca”: organismi geneticamente modificati per eliminare la pronuncia di qualsiasi vocale che non sia la “a”: “Ci prendiamo una cosa frasca?”; “ha fatta la piaga…”; “bambine, vanite all’ambra…”; “hai messa l’alia di cacca?”.
I capodogli e le capodoglie.
I bambini che giocano coi racchettoni.
Gli adulti che giocano coi racchettoni.
Le fanciulle con la gonna a palloncino.
Le fanciulle coi pantaloni da emiro.
Il club delle fumatrici depassé (la loro ragione sociale è sostituire, in un paio di anni, tutti i sassi del Mediterraneo con le loro cicche al rossetto).
I mangiatori di pizzetta.
Gli imprenditori del lettino: in pochi minuti realizzano condomini sul bagnasciuga, collegando fino a dieci lettini e anche ventotto asciugamani.
Le girasolesse da spiaggia: seguono il sole orientando viavia il lettino, e a fine giornata hanno percorso più di 180 gradi, anche passando sulle vive carni di chi sta loro accanto.
I giratori di spalle al mare.
I camminatori con tappine che sollevano ventagli di sabbia.
I mostri brutti.
I mostri belli.
I facenti la fila per la doccia.
I facenti la fila per il caffè caldo, il caffè freddo, la granita finta, il gelato.
I lettori di Repubblica.
I lettori di Libero.
I non lettori.
I mariti.

  Alle tredici e trenta il mare era praticamente invisibile, occupato dalle truppe umane che perlopiù gli giravano le spalle ed erano intente alle proprie consuete occupazioni, che solo per caso si svolgevano in spiaggia: chiacchierare, fumare, giocare a scala quaranta o a niente, provare fastidio, spulciarsi, guardarsi l’un l’altro. La composizione delle tribù, in effetti, appare chiarissima a chi ha anche solo un’infarinatura di etologia: i maschi alfa, che in spiaggia sono femmine, tengono unito il branco, provvedono al cibo, al rispetto delle distanze asciugamaniche e alla giustizia distributiva lettinica, oltre a presiedere ai riti di fratellanza-ostilità con gli altri clan e – all’apparire ciclico degli ambulanti – all’approvvigionamento di cavigliere d’argento, teli etnici, occhiali da sole e secchielli soprannumerari. Le femmine beta, che in spiaggia sono maschi, possono trascorrere nell’immobilità più assoluta anche sette o dieci ore, purché posizionati all’ombra e forniti di carta da giornale rosata. Si riscuotono dalla loro catatonia familiare solo per tornei di bocce-bersaglio (i bersagli sono i vicini d’ombrellone o i passanti, che valgono più punti), immersioni collettive da branco di bufali nella pozza, passaggi rituali di caffè freddo.

  Il mare, manco a dirlo, era incazzato nero, e si esprimeva in un’acqua torbida, malamente azzurra, senza rumori riconoscibili. Anche perché, nel frattempo, lo Stretto era tagliato per lungo da innumerevoli imbarcazioni, secondo tutte le declinazioni del censo, dello scoperto bancario e dell’idiozia sociale.

  Ma.
Bastava fare due bracciate, allontanarsi dai branchi che s’abbeveravano di niente sul bagnasciuga, e girare loro le spalle, e il mare tornava a consolarti, con le correnti fredde, l’azzurro profondo come un nero, l’acqua antica dei fondali rocciosi che risaliva nuova apposta per te.
E allora comprendevi che persino loro, i branchi rumorosi e infelici, non lo sapevano ma stavano cercando la stessa cosa, stavano nutrendo allo stesso modo i loro corpi appannati e le loro anime misconosciute. Senza saperlo, senza poterselo dire e nemmeno comprenderlo, erano lì per celebrare la stessa appartenenza, la stessa devozione al mare e alla sua lezione di musica e coscienza. Stonati, rumorosi e incoscienti, sì.

… continua, purtroppo…

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le mariecristine da vecchie

 Sono ogni anno di più, le mariecristine. Non perché figlino più di tanto: hanno circa due figli a testa, di cui una è sempre una mariacristina. Oppure lo diventerà.
Ma s’aggiungono ogni anno cugine mariecristine, amiche mariecristine, amiche delle amiche mariecristine. E a volte anche vicine d’ombrellone si trasformano in mariecristine, perché è una cosa genetica ma anche virale, innata ma anche imitativa, biologica ma anche culturale. Si nasce, mariecristine, ma anche si diventa. Spesso tutti e due.
  Le mariecristine anzitutto si chiamano Mariacristina, Mariavittoria, Mariateresa, Mariagabriella, Mariagiovanna. Non si chiamano mai Mariapia, Mariagrazia, Marialuisa.
  Le mariecristine sono vestite da mariecristine: con caftani di garza incrostati di stalattiti e stalagmiti, magliettine da tennis e vela, sottovesti di pizzo o cotonine a nido d’ape o forse di vespa. Sotto, portano costumi laminati incastonati da profilati d’alluminio, gioielli romanobarbarici, denti di squalo. Sopra, portano borse gigantesche, di plastica pop, o paglia intrecciata a forma di fienile, oppure pelle di armadillo verniciata di rosso con oblò da veliero e portacellulare in nabuk tirolese.
  Le mariecristine sono state in crociera, e continuano a parlare del ponte di sopra e di sotto, e della piscina salata. A mare non si bagnano mai perché il bagnasciuga è sassoso, l’acqua fredda, i bagnini irriverenti. Però si piazzano a cinquanta centimetri dall’acqua e richiamano i figli con lunghe strida di capodoglio offeso oppure orca morente. I figli le ignorano e continuano a tirarsi pietre di fondale, meduse morte, coltelli da sub.
  Le mariecristine non prendono il sole, perché tanto si sono già fatte le lampade fin da aprile, e sono tutte marroni scure. Le mariecristine profumano di cocco, sali del marcaspio, alghe norvegesi, Chanel numero cinque.
  Le mariecristine non mangiano, ma producono tonnellate di insalata di riso scondita, panini con la bresaola appassita, macedonie di pera triste.
  Le mariecristine fumano molto, soprattutto sigarette sottili che spengono nella sabbia e lasciano lì, macchiate di rossetto. Alla fine di agosto ci sono più cicche di mariecristine che sassi, nel mediterraneo.
  Le mariecristine hanno bracciali, collane, orecchini da guerra. Amano i cerchi d’argento di trenta centimetri di diametro, oppure i gioielli di famiglia d’oro cesellato a forma di tempietto barocco. Portano pure cavigliere piene di sonagli, e quando passano fanno rumore di monatti in processione. Le mariecristine amano molto gli ambulanti della spiaggia, e li ospitano spesso sotto i loro ombrelloni e passano ore e ore a guardare le collane e gli orecchini, a provare gli anelli sollevando la mano e mostrandola alla mariacristina accanto, che ogni volta annuisce scuotendo la criniera ed emettendo un caratteristico leggero barrito. Ma poi quando devono comprare cominciano a piagnucolare dicendo che non hanno soldi e il marito s’arrabbia e se possono pagare in trenta rate da venti centesimi.
  Le mariecristine non leggono, non ascoltano musica, non guardano il mare. Si guardano tra loro, accostando le teste mesciate, e parlano di mariti e malcontento e altre mariecristine di altre spiagge.
  I mariti delle mariecristine sono uomini annoiati con bragoni fino al ginocchio e orologi fantasmagorici che si collegano ai satelliti e cercano da soli i negozi online. Sono calvi, di solito, con brevi pizzetti e pelo rado sul petto. Sono molto avvocati, o molto bancari.
  I mariti delle mariecristine vengono solo nei fine settimana, e le mariecristine dicono: “Ragazzi, c’è papà oggi”, e i ragazzi le ignorano e continuano a tirarsi pietre di fondale, meduse morte, coltelli da sub. Poi le mariecristine distribuiscono l’insalata di riso e si sdraiano sul lettino, stanchissime.
E’ un duro lavoro, essere mariecristine, ma qualcuno deve pur farlo.

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Pedro Cano, autore delle città invisibili, qui con Presencias. MI pare ci stia anche meglio

La città brutta cresce ogni giorno.
Perché la bruttezza ha bisogno di moltissimo spazio. Preferibilmente vasti spazi un poco diroccati, o meglio incompiuti: la bruttezza si compiace del non-finito, del perpetuo, del provvisorio. Muri sgranati, attrezzi, tubi accatastati.
La città brutta è vasta, spessa, persistente. Aggiunge ogni giorno nuovi quartieri, perché è avida e affamata, e soffre d’un incontenibile bisogno d’allargarsi, di cancellare.
Abbiamo perso quasi tutto il litorale: una lunga striscia grigia di cementi screpolati, di capannoni, di cavalcavia cadenti sotto i quali le carcasse d’auto diventano ruggine salina, e di notte ospitano falò, segreti, copertoni rubati.
Il mare azzurro acciaio torna a vedere di continuo, e sbatte sempre sui ciottoli di palazzina, i sanitari sradicati, i pali della luce. Montagne di rifiuti in cui qualcuno scava case, giacigli, stanze nascoste di miserabili tesori.
Ma non è certo quello, il cuore della città brutta.
Il cuore sta nei quartieri di nu-o-va-es-pan-sio-ne-re-si-den-zia-le (la città brutta comincia dalle parole): i condomini di vetrocemento coi cancelli dentati, i terrazzi chiusi come trincee, i cortili piastrellati. Scendono dalle dorsali dei colli, s’infilano negli spazi cavi dei rioni antichi, si sopraelevano per magia spuntando dalle mura vecchie e sostituendosi alle terrazze, agli abbaini, ai sistemi poetici di resistenza delle case basse.
Perché la città brutta è combattiva e feroce.
La città bella invece è effimera, pigra, fatalista. Si contenta di manifestarsi casualmente, avvalendosi del suo potere ubiquo, sfuggente e immateriale: qualche volta puoi ravvisarla persino dentro la città brutta, in forma di riflesso, profilo d’ombra, miraggio.
Nella piazza del Municipio, lontano dai faretti incastonati nel selciato che ti fanno male agli occhi, lontano dalle transenne municipali, almeno due volte al giorno i ficus magnolidei preistorici disegnano la loro mappa di sopravvivenza: ombra luce luce ombra. Trame nascoste che affiorano e dentro le quali puoi camminare, avvolto nel loro respiro aromatico e primordiale.
E in certe mattine, quando svolti dal curvone, lo Stretto d’oro puro si specchia nei vetri e invade tutte le case con un bagliore persino vittorioso.
E gli archi delle case fasciste, i loro mascheroni di pietra candida, hanno una compostezza, un nitore che si disegna perfettamente dentro l’azzurro.
Per non parlare delle epifanie e dei miraggi che qualche volta, se sei fortunato, appaiono agli incroci, nell’aria tremolante dell’afa o in mezzo alla sottile pioggia monsonica.

La città brutta ora pretende gli alberi: ne hanno già tagliati cinquanta, pini marittimi che bordavano la circonvallazione. Il loro lamento acuto e persistente, il loro fantasma di resina ora assedia la strada e le notti. I loro tronchi d’un colore atrocemente vivo spuntano dall’asfalto rimboccato, e la città brutta ne è ancora infastidita: tolgono spazio ai parcheggi, alle mandrie meccaniche, ai cassonetti. La città brutta srotola le sue strade di pessimo asfalto, sparge catrame e anidridi carboniche, ossida i metalli del ricordo col suo respiro d’ammoniaca.
La città bella perde continuamente pezzi, che lasciano memorie inconsolabili dentro i pochi che sono capaci di abitarla, la città bella, di tanto in tanto.
Certe mattine, quando la città brutta non s’è ancora svegliata, dal balcone puoi guardare gli infiniti, microscopici punti della città bella, vecchi e nuovi, scomparsi e scampati: il Monte di Pietà, quello prima del 1908, con la scalinata doppia, il vecchio Ospedale dal muro bugnato, i nidi di rondine, i cipressi, i villini svizzeri avvolti nella vegetazione implacabile, il lungomare pettinato, l’acqua blu del bagnasciuga, le chiome favolose che spuntano dal recinto dell’Orto botanico.
La città bella abita ancora dentro nomi, recinti, dolci, usanze. E’ multiforme, per grazia degli dei. S’accontenta di poco. Anche solo una finestra dai vetri colorati, un rampicante, un riflesso.
Anche se a volte – ma molto raramente – è persino rapace, la città bella: il capannone della concessionaria abbandonato è stato preso dalle bouganville, dalle palme giganti, dai cespugli d’un tenace pitosforo cittadino. Ora è un regno compiutamente vegetale, in cui un qualche potere antico ha manifestato la sua supremazia. Per non parlare dei tigli, quando si svegliano dal loro sonno biennale: sobillano i corpi e i cuori anche per un mese intero, prima d’addormentarsi di nuovo.  Attirano le api, spaccano le nostalgie fino a cavarne il nocciolo duro.

Forse solo i gatti sono capaci d’abitare simultaneamente le due città: saltano secondo loro percorsi misteriosi, alzano i musi, seppelliscono nel segreto delle loro pupille d’oro le immagini labili, inconoscibili, della fuggitiva città bella.

Sono molto turbata: gli alberi tagliati, con grande pompa municipale per fingere efficienza, e ora l’annuncio sulla follia del Ponte. Tanto lo sappiamo tutti come andrà: apriranno cantieri su cantieri, movimenteranno terra e speranze dei disoccupati, e lasceranno voragini inguaribili. E Scilla, e Cariddi, e i miracoli di bellezza quotidiani in cui si esibisce inutilmente lo Stretto saranno ancora un po’ più mortificati, cancellati, rinnegati. Sono turbata, offesa e mi sento impotente.

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Ambasciatori della fame 1893-94

Non siamo maggioranza da almeno quindici generazioni, forse venti o anche trenta. I disperati che se ne partivano facendo l’unico viaggio che potevano, all’indietro, dalla costa alla montagna, per sfuggire ai signori spagnoli e ai pirati saraceni (quasi indistinguibili tra loro), erano una minoranza stracciona e terrorizzata, disposta persino a vivere come le capre o i lupi d’Aspromonte. Ma allora la minoranza era la maggioranza: maggioranze così divise da essere meno d’una minoranza, meno di uno per ciascuno.
L’abbiamo ereditata, questa cosa della minoranza maggiore: siamo sempre stati la maggioranza minoritaria, quando ci terrorizzavano gli spagnoli, gli arabi, i normanni. I Borboni. Non contavamo niente, e stavamo nelle nostre case come se fossimo stranieri sott’assedio, con la paura che ci faceva mozzicare la punta del cuore.
Abbiamo ereditato un sacco di cuori mozzicati, infatti: il male della minoranza maggiore che si trasmette di padre in figlio, dentro le linee del sangue scuro e vecchio che corrono fitte sotto la pelle di foresta e spiaggia e montagna e roccia della Calabria Citra et Ultra.

Fiumana 1896

Sì, c’erano sempre alcuni di noi che volevano essere la minoranza maggiore. E lo potevano volere solo in due modi: dalla parte giusta e dalla parte sbagliata. I primi diventavano rivoluzionari, bracconieri, agitatori, briganti e martiri. Gli altri diventavano guardacaccia, guardaspalle, sicari, mezzadri e preti.
Ma restavano sempre quello che erano: la maggioranza minore, infima.
Nessuno di noi è diventato principe. Qualcuno re, ma per un giorno solo.

Quando c’erano le camicie rosse eravamo spaventati: erano tanti, almeno mille, una maggioranza. Indietreggiavamo, noi che eravamo pochi, centomila, un milione, una minoranza. Ci hanno ripresi da dietro, mentre sbarravamo gli usci e ci nascondevamo sotto il letto: uscite, venite a lavorare, ci dicevano i padroni. Loro erano la maggioranza.
Come i Savoia: una minoranza così maggiore che prendeva mezza Italia, una mezza Italia talmente grande che noi, quaggiù, eravamo piccoli piccoli. Minori.

Il cammino dei lavoratori 1898

Con le camicie nere la maggioranza era uno solo: noi, la maggioranza minore, lo applaudivamo quando appariva nei cortili squadrati, in testa ai cortei, sui balconi, alto sulle medaglie e le nuvole. Tanti eravamo, tanti come se fossimo, noi, uno solo: e uno solo è una minoranza, no?
Fu dopo i bombardamenti e la fame, dopo la pioggia di cioccolata e cingomma, dopo che ci lavarono la testa ben bene col ddt (che poi ci doleva da morire, la testa, e pensavamo che ci volevano ammazzare, perché eravamo la minoranza, noi maggioranza che avevamo perso la guerra come prima avevamo perso la pace): allora andammo a fare il referendum, quando la maggioranza scelse quella cosa nuova, la Repubblica. La maggioranza, mica noi. Noi avevamo votato per il sindaco, il prete, il farmacista, il signor barone. Siamo sempre stati la minoranza, noi coi cuori mozzicati e il mal di testa.

Ora la maggioranza ha scelto, anzi continua a scegliere senza fermarsi un attimo. Hai voglia a dirgli: aspetta, fermati un momento, ragiona. Zitta tu che sei in minoranza, dicono. La maggioranza vuole quella determinata minoranza che ama moltissimo la maggioranza e continua a farle regali: la tivù di maggioranza, il premio di maggioranza, il sanremo di maggioranza, il Grande Fratello di maggioranza. La maggioranza dice che è felice così.

Ma io mi ricordo, mi pare di ricordare che la maggioranza che, allora, decise che doveva essere la maggioranza a decidere, era convinta che la maggioranza doveva comportarsi come una minoranza, cioè farsi un sacco di domande e capire perché è una minoranza e cosa vuol dire e avere presente la differenza che esiste nell’essere una minoranza, una differenza che in sé non è né buona né cattiva ma solo una differenza e la democrazia consiste nell’armonizzare le differenze, perché mai nessuna maggioranza sia una dittatura per le minoranze, come prima erano le minoranze ch’erano dittature per le maggioranze. Le minoranze devono studiare da maggioranze. E le maggioranze, beh, loro dovrebbero educarsi da minoranze.

Il Quarto Stato, 1901

Ma la maggioranza di ora mi sembra come certe minoranze di allora: vuole essere tutto, e non vuole differenze.
Io oggi non voglio essere la maggioranza: continuo a essere quello che sono sempre stata. Una minoranza che vorrebbe essere la maggioranza e allora si educa come se fosse una maggioranza e più si educa meno è maggioranza.

Ridatemi i saraceni e gli spagnoli.

Sono giorni strani: ho paura di quello che sceglieranno per me. La democrazia, se si svuota da dentro, è più pericolosa d’una dittatura. Se viene seminata a menzogne, a pessima televisione, a informazione drogata, a culture scadenti e ad "aiutini" diventa un’altra cosa, ma restando, di fuori, la stessa.
Sanremo è lo specchio di quest’Italia: un tritarifiuti dove mescolare il bello e il brutto, il sacro e l’orrido, Alda Merini e il Grande Fratello, Puccini e i Puffi. E tutto è legittimo, se consacrato dalla maggioranza.
Ma che scelta è, quando non si sa più scegliere?

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Leda col cigno, appunto

 La donna camminava circondata da uno sciame: erano fiori, o farfalle, o fate molto piccole. Avevano visi stretti dal mento sfuggente, occhi a punta e frinivano in modo riconoscibile. Lei ci parlava ininterrottamente, consigliandosi con loro, o rimproverandole per qualcosa. Era perfettamente chiaro che si trovava a proprio agio.
 Passò davanti all’uomo avvolto nel pitone, che gli rosicava lentamente la base del cranio, senza che lui lo desse a vedere, d’altronde. Nella vetrina si specchiavano tutti e due, l’uomo e il serpente.
La donna delle fate-fiori passò oltre, gesticolando in mezzo allo sciame: non era mai sola, lei.
Viceversa, la donna con la boccia di piranha aveva un’aria afflitta: teneva una mano dentro l’acqua, che nemmeno si vedeva, con tutti quei pesci d’oro terroso e rosso che s’affollavano attorno.
L’uomo coi gatti sembrava sereno: ne aveva due, gemelli, d’angora bianca, che gli camminavano accanto, uno per lato. Avevano un pelo candido che catturava la luce e altre cose. L’uomo sorrideva lievemente. Quando gli passò accanto la donna con la pantera, i felini si sogguardarono e qualcosa d’elettrico corse tra le pellicce degli animali e gli occhi degli umani.
  Per gli animali pesanti c’erano corsie separate: andavano e venivano orsi bruni, elefanti indiani, una giraffa. Due cammelli dondolavano di lontano, ruminando incessantemente e facendo ondeggiare i finimenti dorati: gli uomini accanto a loro avevano visi impenetrabili.
 Una tigre reale passò a grandi falcate, lasciando una scia d’odore muschiato: la donna che portava in groppa era aggrappata al suo collo, i lunghi capelli neri che si confondevano con le strie della tigre.
 Sotto l’arcata del Ponte, lo Stretto era continuamente attraversato da pescespada, orche marine e megattere, accanto a cui qualcuno nuotava o si lasciava portare dalla corrente: non si potevano distinguere le rotte degli uomini e dei pesci, e i loro tracciati argentei disegnavano come una ininterrotta scrittura.

Pensavo alla forma dell’anima, oggi: a volte è una vipera, a volte un moscerino, a volte una cavalletta d’oro posata come una spilla sul risvolto della giacca. Ma a volte è un elefante bianco, a volte un dromedario, a volte una tigre reale. Stamattina m’ero svegliata con accanto un serpente verde veleno. Poi è diventata un gatto pensieroso, una tigre da guerra, una sfinge, una poiana. Dopo aver perlustrato il cielo con gli occhi rapaci e aver riempito le penne d’ossigeno fresco, l’anima è volata giù, s’è accucciata e s’è messa a dormire, il pelo bianco che si muoveva appena al vento.

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