Ieri – nel girone dantesco della spiaggia di domenica pomeriggio – l'ho saputo con chiarezza: io odio la gente almeno quanto amo l'umanità. Sopraffatta dalla vergogna, me ne sono scappata a casa dove, in fondo, c'era pur sempre gente, ma almeno me la sono scelta e in un caso persino fabbricata da sola.
E dire che ero andata al lido degli anziani, quello dei cinquantenni diroccati ma ancora idealisti – per intenderci, quelli che ieri erano con me a fare il sit-in davanti alle trivelle, ridicoli ma temibili avamposti del Ponte delle bugie – quello delle famiglie multiple (noi laici abbiamo un gran senso della famiglia, come sanno tutti), quello che una volta si chiamava Legambiente ed era una forma di resistenza umana e balneare ed oggi è pressoché indistinguibile dagli altri lidini geneticamente modificati con dosi di eppiàuar e calcio saponato e musica tekno fino al bagnasciuga e oltre.
Ma non c'è scampo, alla televisivazione coatta delle nostre vite, e dunque la domenica ha pian piano assunto la sua dimensione tragica di reality balneare, le sue caratteristiche di alveare furioso dove è abolita ogni distanza prossemica (e talora pure ogni traccia di deodorante), la sua protervia di campionato delle molestie attive e passive.
Erano un milione circa, equamente distribuiti in centocinquanta metri di litorale. Piantavano nella sabbia mozziconi, bucce
d'anguria, cingomma masticata, chiodi, bambini. Giocavano a pallone, a palletta, a tennis, a pingpong, a rugby colpendo a caso tutto quello che si muoveva, nuotava o respirava.
Scendevano in acqua con la grazia dei bufali muschiati, e restavano
nella pozza a celebrare amori, gossip, deiezioni vicendevoli.
Lo Stretto, per giunta, che è un vecchio mare insofferente e
'mpituso, per dispetto secerneva pantani, o stagni, o correnti maligne, o flussi d'immondizie flottanti d'incerta provenienza.
Il tutto sovrastato dagli altoparlanti che altoparlavano incessantemente, distribuendo la democrazia ottusa e livellatrice del rumore che chiamano musica, che chiamano spot, che chiamano jingle, che chiamano – sigh e sob – parola.
Io ero persino affascinata, da tanto orrore, e ho resistito finché ho potuto. Poi mi sono detta: sei sempre la minoranza, povera te. Ho preso la borsa e, scansando la lotta grecoromana dei bambini accanto e il fuoco amico delle parole crociate della signora di lato (che risolve solo quelle a due lettere, tipo “sigla di Reggio Calabria”, oppure “Iniziali di Totti” e passa il resto del tempo a chiedere a me “capitale di Sao Tomè”, “il dramma scritto da Ulderico Mòzzichi nel 1765”, “nome del cugino primo di Stefano Bartezzaghi”), bombardata da una canzone che ricordava la sala macchine del polo siderurgico, sono scappata, chiedendomi dove ho sbagliato.
Ma lo so, dove sbaglio: dovrei diventare ricca, comprarmi una villa romita immersa nel silenzio e contemplare da lontano il mio amore per l'umanità, a distanza di sicurezza dalla gente.
Dillo a me, che soffro della sindrome di Riccione se accanto a me in spiaggia ci sono due persone.Orari sicuri: 7 del mattino e 19 "postpomerimediane", come dice un mio vicino