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Posts Tagged ‘trappola per topoi’

Premessa: sapete quello che penso delle catene (trattasi di catena telematica, che infuria su feisbuk come una volta, ai bei giurassici tempi, infuriava tra i blog). E di chi mi incatena. Ma siccome sono una peccatrice, col vizio della virtù e il peccato dell’innocenza, vi perdono.

Le virtù teologali

FEDE
La fede è quella di mia madre,di oro rosso con qualcosa di ardente, qualcosa di antico, qualcosa di povero e caparbio. E i nomi graffiati dentro. Ecco, la fede è quando hai un nome graffiato dentro, nel giro del cuore, e non puoi prescinderne. Sicché io ho fede nella cupola del cielo, nella persistenza di mio padre e mia madre dentro di me e qualche volta pure fuori, nella tenuta del castello d'aria e immaginazione in cui vivo e tengo i miei affetti e qualche volta le mie parole.

SPERANZA
Dev'essere quella dea gentile e sfigata che hai solo quando non la vedi svolazzare, come una falena di taglia grossa, attorno alle macerie luminose. La speranza vera è quella invisibile pure a te stesso, quando ricominci, senza nessun talento per il futuro e nemmeno per il presente, ti rialzi e vai.
Ci dev'essere una certa quantità di speranza minerale aspromontana nelle mie ossa di donna calabrese tragediatura ma vitale, che scambia la speranza con il coraggio, e tutte e due con la durata malgrado, nonostante, purtroppo.

CARITA'
A scuola, dalle suore, m'hanno insegnato quella pelosa, quella circospetta, quella che nasconde una compravendita, o una sanatoria.
Poi ho saputo che, nel fondo di quella parola, brillava la charis, la grazia luminosa di ciò che è caro e bello e desiderabile. Allora ho capito che è una forma d'amore, ed è anche più bella quand'è all'ombra. Lasciamocela.

Le virtù cardinali

PRUDENZA
Non correre. Non sporgerti. Non tuffarti da lassopra. Non aprire quella porta. Non mangiarne tanto. Non provarci. Non andarci a letto. Te lo avevo detto, io.

GIUSTIZIA
La giustizia è una malattia. Una sete, una fame chimica, un ronzìo nelle orecchie, un soprassalto di sangue. Una malanova. Quando ti prende vorresti la spada dell'arcangelo, per diventare subito ingiusto facendo giustizia.
Perché in fondo è una dea severa dalle carni gelide e dal tocco imparziale, ma qui in Calabria la veneriamo col nome di vendetta, qualche volta, che è solo la sorella gemella e focosa dagli occhi fosforescenti che ti tormentano al buio.
Io sono vendicativa e rancorosa, maneggio il cric e dentro di me la chiamo sempre Giustizia. Non so se lei si volta, quando la chiamo.

FORTEZZA
E' rocciosa e invisibile. Consiste nel prendere l'aliscafo per duemila volte di seguito e fare la strada dell'ospedale, per trovare lei lì, un poco di meno ogni volta, e inseguire quel suo modo d'andarsene, e poi uscire a cercarla e sapere che non la troverai mai più.
E’ sopportare il prima e anche il mai più.

TEMPERANZA
Ha gli occhi verdi, armoniosi, alieni. Probabilmente consiste nel fermarsi un attimo prima. Troppo presto, per quelli come me.

I vizi capitali

SUPERBIA
Li guardo con disprezzo. Arriccio il naso. Tengo la testa ben alta, e faccio un sorriso mezzo e sottile, sperando che li tagli. Anche le parole le lucido come una collezione di lamette.
Non li sopporto, i cretini.

AVARIZIA
E' un portone sempre chiuso. E' la donna che legge l'oroscopo accanto al letto dove lui rantola con gli occhi ciechi. E' la cassetta dei gioielli di famiglia sepolta viva in qualche cassaforte, cogli orecchini di granato che perdono colore e le perle che appassiscono di solitudine.
Non siamo avari da molte generazioni – a parte mio fratello e mia cognata, che contano pure i fazzolettini di carta – ma siamo l'opposto che pure è un peccato: il mi bisnonno fu l'unico a tornare dall'America più povero di prima, con una sola tazzina da caffè, ma con le mani cosparse di polvere d'oro, di tutto l'oro che ci era passato attraverso.
Abbiamo ereditato quel tocco rovinoso e in fondo felice.
La povertà può essere una forma di ricchezza, e la generosità una forma d'avidità. Siamo avidamente generosi, rapaci di prodigalità.

LUSSURIA
E’ lussuria, se voglio entrare nella sua anima passando dal suo e dal mio corpo uniti e spalancati? E’ lussuria se voglio entrare nella mia anima passando dalla sua? E’ lussuria se amo col tatto, con l’olfatto, con l’immaginazione? E’ lussuria se faccio sogni roventi, ma ero sveglia? E’ lussuria se attraverso giungle di carne e mi fermo ad ammaestrare leoni a divorarmi?
No, infatti.

INVIDIA
L’invidia con gli occhi stretti siede alla finestra e sputa veleno. Ci guarda passare, con gli ombrellini di carta, il rosso sulle labbra, i capelli sciolti, non più belli o più fortunati di lei, solo più liberi, e impreca dentro di sé. Poveretta.

GOLA
La gola non è un peccato, è una sineddoche.
Io ce le ho avute tutte da piccola, la sineddoche, la metonimia, il chiasmo e pure lo hysteron proteron. Perché di questo si tratta: ogni volta, vuoi raccontare l’universo mondo, oppure mangiarlo, incorporarlo e fartene nutrimento.
Sì, io mangio il mondo a mozzichi, con le sue allegorie e la sua cioccolata fondente, i suoi corpi e le sue matite, le sue melanzane ripiene e rivuote, i suoi anacoluti crudi con un poco d’olio e polvere di zenzero, di zanzotto, di zanzibar.

IRA
E’ il mio peccato preferito, o forse sono io la sua peccatrice preferita. L’ho ereditata da mio padre, che soffriva di collere fredde fino a che ha avuto la giovinezza che gliele temperava (a torto si crede la giovinezza una stagione di tempeste: la giovinezza è piena di timori, esitazioni e dubbi), e in vecchiaia è diventato un iracondo tropicale. L’ira confina con la giustizia, con la vendetta, con la tolleranza e l’intolleranza: invade i confini e marcia come sulla Polonia, e tu non puoi farci nulla.
L’ira mi mangia viva, certe volte, e so che ne morirò, come per un guerra civile senza vincitori e con tutti vinti.

ACCIDIA
Solo una vera pigra può guardare negli occhi l’accidia e dirle: non mi piaci. Non mi piaci.

Infine: ho sempre pensato – dal momento che nel remoto passato anche qui c'incatenammo coi peccati – che queste liste siano poco attuali. Aggiungerei un altro elenco di peccati capitali e di virtù fondamentali. Ma è un elenco aperto, che vi invito a continuare voi. (come mi ricordava Matteo Pelliti, qui gioca l'eco di remote catene. Dedico vizi e virtù allo scomparso Effe, al quale si devono alcuni dei nuovi peccati capitali qua sotto, gli dei del web l'abbiano in gloria)

PECCATI CAPITALI

Indifferenza
Intolleranza
Violenza
Sudditanza
Ipocrisia
Silenzio

VIRTU’ FONDAMENTALI

Accoglienza
Coraggio
Condivisione
Partecipazione
Linguaggio

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anna, anche lei

 “Chi sei tu, una comparsa?” L’uomo con gli occhiali e la barba quasi bianca abbassa il megafono e si rivolge impaziente alla ragazza avvolta nella coperta militare.
 “Comparsa? No, anzi. Sono scomparsa per un sacco di tempo” fa lei. E’ molto giovane e stanca, ma gli occhi sono scuri come un noce di mille anni, come certe notti di poche luci. S’accomoda attorno la coperta, siede a gambe incrociate sul margine della strada, dove la neve s’accumula fra le traversine. Non smette di guardarlo.
“E cosa fai qui?” dice lui sospettoso, dando un’occhiata rapida all’orologio: altrove, il tempo scende nella clessidra in forma di denaro.
“Guardo” risponde, semplice, lei. “Magari mi ricordo qualcosa – aggiunge, e un lampo scuro viene dagli occhi – Non serve a questo, ciò che stai facendo?”
 “Sì, serve a questo” si ferma lui, perplesso. Si guarda attorno: nel vasto campo, circondato dai riflettori e dalle cineprese, camminano tutti assieme gli internati con le divise a strisce, i tecnici, i soldati con la svastica, gli aiutoregisti, i kapò coi canini luccicanti.
Un grappolo di microfoni cala in un angolo, i carrelli slittano nella fanghiglia. La neve intanto segna le pause, le righe bianche, il tempo rapido e lento della memoria che va all’indietro.

 “E cosa ti ricordi?” dice ancora l’uomo, avvicinandosi d’un passo. Ora la guarda meglio: la ragazza ha il segno d’una fossetta sul mento, le labbra secche, qualcosa d’inconsolabile sulle guance. Ma gli sorride.
“Niente, non mi ricordo niente – scuote il capo sconsolata – Mi ricordo un retrocasa, pareti di fòrmica marrone, odore di cavoli, un gatto”.
Qualcuno, alle loro spalle, urla qualcosa, forse "si gira": gli internati con le divise a pezzi corrono da un lato, una raffica di mitragliatrice disegna righe precise, fuoco rosso sulla neve, un volo di corvi si scatena da un punto imprecisabile dell’est, aggiunge altri ricordi, come vortici di polvere nel cielo dei camini.
La ragazza sussulta, spalanca gli occhi e inghiotte la neve, il campo, i passi, il fuoco, i corvi. “Sembra un film – dice poi parlando piano – Mi piacevano, i film. Si dimentica ogni cosa, coi film”. Torna a guardare la spianata del campo.
“No, si ricorda ogni cosa, coi film – fa, secco, l’uomo – Anche quello che non conosciamo, possiamo ricordare”.
A dieci metri da lui, una donna col fazzoletto in testa cade nella neve, un foro rosso e perfetto nel mezzo della nuca.

“Ti sbagli – il viso rotondo della ragazza s’increspa di decisione, le labbra tornano brevemente rosse – possiamo distrarci, possiamo consolarci, possiamo… dimenticare”. Le piccole mani stringono il bordo della coperta, che in un angolo s’è inzuppata di neve e ha preso un colore di piombo.
Una fila di prigionieri cammina con le mani sulla testa fino al plotone d’esecuzione, tre bambini strisciano in silenzio verso il filo spinato, da lontano vengono i suoni ammaccati d’una marcia militare stonata. In una baracca, qualcuno sta nascondendo una stola ricamata con simboli religiosi in un pagliericcio; un altro scambia un diamante con un pane; un altro ancora scrive lentamente una lista: l’inchiostro è denso come sangue nero. Nel paese accanto, la gente cammina con la testa bassa, e ripete che la guerra è lontana.

“No, questo non me lo ricordo – dice ancora la ragazza – mi ricordo le fotografie delle stelle del cinema che appiccicavo sul muro: loro mi aiutavano a sognare, che è un modo per dimenticare”.
La neve riprende a cadere, sul mondo di prima e di dopo.

Lo so, oggi è la Giornata della memoria, che è una cosa infida e bifida. Ma Anna Frank è stata una di famiglia, molto tempo fa, e volevo ricordarmela. Questo post è stato pubblicato, mille anni fa, nel defunto blog "Incontri impossibili" – gli dei abbiano in gloria il suo ideatore, Herzog. L’incontro impossibile, come è evidente, è tra quel truffaldino di Steven Spielberg e Anna Frank. Ma esistono davvero incontri impossibili? Non li mettiamo continuamente in scena, nella nostra immaginazione che è bulimica e sincronica, come l’inconscio, come lo stomaco?
Memoria e oblìo a tutti voi, in parti rigorosamete diseguali.

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una non-pipa secondo Magritte

 C’avevo un fidanzato, duemila anni fa, che amava i giochi di parole. Divideva le persone in “allitteranti” e “non allitteranti”. No, non è questo l’unico motivo per cui l’ho lasciato, però non era uno degli ultimi.
In effetti io all’inizio lo trovavo affascinante, devo ammetterlo. Mi scriveva sms cifrati dei quali non capivo una cippa, se non che ci doveva aver messo ore, a pensarseli. Il che è già una bella prova d’amore, no?
No, in effetti. Ma io allora mica lo capivo.
E’ che venivo da una famiglia, anzi due, dove si diceva pane al pane e vino al vino. Poi, che si vivesse in un vortice di segni e presagi, dove ogni cosa stava per un’altra, era una faccenda diversa. Ma le parole non si discutevano, semmai si usavano. Come bicchieri, porte girevoli, forchette, tavoli, forcine, coltelli, per lo più coltelli. Le parole ci sono sempre servite per scambiarci cose, per pettinarci i capelli, per nasconderci dentro, per oltrepassarci, per dimenticarci, per tradire, per farci coraggio, per attraversare le strade, per scaldarci i piedi, per abbottonarci, per picchiare qualcuno.
 Parliamo per graffiare, per mordere, per accanirci. Parliamo per starci lontani.
Qualche volta parliamo per consolarci, ma accade di rado (nonno Basilio s’era pure inventato una lingua, e se la parlava da solo, per darsi conforto: era fatta di sillabe che duravano ore, e riempivano tutta la casa. Al mattino, certe volte ce n’erano così tante, tutte aggrovigliate sul pavimento, che mia nonna doveva buttarle fuori con la scopa): siamo gente di gesti, o di guerra, per lo più.
Parliamo per usare e piegare il mondo, e gli scongiuri, i sortilegi sono solo parte di questo potere, né più né meno d’un certificato d’invalidità civile, d’un libretto della pensione, d’una bolletta del gas.

 Così, ho dovuto scoprire tutta da sola la bellezza, l’ombra e l’inutilità delle parole. Mi ricordo pure quando avvenne: avevo undici anni e lessi, in un’antologia altrimenti inutile, “Vocali” di Arthur Rimbaud.
Fu come spaccare il cielo e scoprire che, dietro, c’erano altri mille mondi in fila. 
 Col fiato corto, andai dalla prof d’italiano e le dissi: “Per piacere, possiamo leggere “Vocali” di Rimbaud?”. Lei mi guardò e rispose: “Meglio questa”. E mi porse “Il 5 maggio”.
E’ chiaro che era prezzolata dall’Ufficio Soppressione Amore per la Poesia E Non Solo. E’ chiaro che aveva profondissime turbe sessuali, e non solo. E’ chiaro che aveva paura degli aggettivi: immaginava aggettivi nascosti nell’ombra che l’aspettavano per spalancare l’impermeabile, forse. Forse i periodi ipotetici le facevano telefonate piene di sospiri. Forse gli avverbi di modo – i miei preferiti, ma allora non lo sapevo – la toccavano sotto la gonna, quando passava, e lei doveva difendere la sua virtù. Forse pensava ch’avrebbe perso il paradiso. Certi paradisi somigliano sputati all’inferno, viene da pensare.
Insomma, è stata dura.

 Ed è stato uno dei motivi per cui lo scemo allitterante mi piaceva tanto: era uno dell’altro lato del mondo, uno che percepiva le parole come sono, ibridi mitologici, fenici, chimere metà cosa e metà idea. Macchine del tempo, trabocchetti, bauli col doppio fondo. Ne assaporava la consistenza propria e squisita, la capacità mimetica, il lato ludico, potente e mostruoso.
Però era scemo, presuntuoso e pure sessualmente inetto.
Ma io, agnella, non ne sapevo nulla, allora, di sessualità e metonimie, di libido e onomatopee, d’orgasmi e ossimori. Ignoravo le mie zone erogene: avverbi di modo, ablativi assoluti, ellissi, paronomasie, gerundi, litoti. Ignoravo le più comuni gioie orali: al primo reading di poesia assistetti che avevo vent’anni abbondanti, e mi imbarazzava, essere vergine. Non sapevo nulla neppure di contraccezione: non sapevo come ci si preserva dalle conseguenze emotive d’un aggettivo, d’una paratassi, d’uno hysteron proteron.

Ora, ammetto, ho una pellaccia, e per incantarmi ci vuol altro che un’allitterazione. Per esempio  zop. Di lui ho già parlato, e diffusamente, qui: vi ho messi tutti in guardia dai suoi folli esperimenti – sappiate che fuole tifentare patrone di web, sì – e dalle sue trovate pirotecniche.
Sappiate che, dopo, non c’è più scampo. Non ne uscirete più.
Ora, per esempio, vuole trasformarci tutti in stupratori.
Con me, ovviamente, c’è riuscito. Il futuro della letteratura, si sa, è nella perversione.

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le sette peccatesse tropicalesse danzano come muse ("Concerto" di Casorati)

Premessa, nonché avvertenza: trattasi di famigerato post di sant’antonio, ovvero catena alla quale, per imprecisati motivi a cui la genetica non è estranea ma nemmeno l’apprendimento, non riesco a sottrarmi. La colpa, nel caso, è di atvardi, altrimenti detto sensasenso, altrimenti detto L’uomo nella mezzina: andateci e ditegli il fatto suo (e approfittatene per leggervi qualche post, magari: vale la pena, vale il peccato). Ma si sa, in questi casi le colpe sono bibliche: Strahad generò atvardi e atvardi generò brioche eccetera. E vorrebbero persino che io continuassi la catena di colpe ed espiazioni (in caso, sapete ormai tutti che mi riescono molto meglio le seconde che ho detto), investendo di una nominèscion tre blogger nel mio mirino. Ora, io storicamente non azzecco un’elezione manco per sbaglio, manco per statistica, manco per stocastica: scelgo sempre chi perde – Inter, sinistra, donne, ecc. ecc. – quindi non m’aspetto di scegliere felicemente nemmeno stavolta – nel senso che probabilmente rifiuteranno, e mi toglieranno pure il saluto –  designando fuoridaidenti (che c’ha un che di sulfureo, non possiamo negarlo), Giocatore (che invece c’ha un che di biblico) e demetrio (che ha tutti e due). Vorrei nominare pure Herr Effe, che secondo me coi peccati se la cava egregiamente, ma non so se le blogstar c’hanno l’elettorato passivo.

Infine, il tema sarebbe "i sette peccati capitali", ma io ho pensato che i miei sono tropicali (sì, come quelli dell’omonima – e introvabile – sceneggiatura di Manuel Puig : non l’ho mai letta, ma non importa. E’ uno di quei casi in cui un titolo contiene tutti i mondi necessari e sufficienti). E ho pensato anche che dovrebbero essercene molti di più, di peccati mortali. E anche peccati immortali, di quelli che vale la pena. Magari la prossima catena è questa: posta il tuo peccato capitale, baby. Vabbè. La smetto di cincischiare, e vi lascio. Peccato. 

1) ACCIDIA

Si sveglia nel centro della notte, che è un centro spostato, tra l’ultima fila di lampioni e la linea del bagnasciuga: non è mai abbastanza notte, quando il mare ti luccica indietro ogni chiarore. Stelle, incendi, finestre inquiete, falò, superstrada.
Lei ci mette alcuni secondi a tornare al suo posto. La stanza c’è, i ricordi pure, persino i vestiti sulla poltroncina sembrano i soliti.
“Che hai?” fa lui, che invece vortica ancora altrove, e ha gli occhi sottili come passerelle.
“Niente” fa lei, ed è una verità, in fondo.

2) GOLA

Lei teneva un pacchetto di caramelle tra le cosce. Lui pescava a caso, ma quelle al limone erano le sue preferite. Era capace di succhiarle per ore.
Poi, dormivano.

3) LUSSURIA

L’aveva baciato, almeno mille volte. E lo toccava, lo circondava con le braccia e sfregava il viso contro i peli del petto, che erano folti e ricciuti. Sapeva di rosmarino, pelle conciata, legno di cedro. Era coriaceo, ma anche morbido al tatto. Lei lo sfiorava con attenzione, il fiato sospeso, la peluria del braccio irta, un allarme diffuso tra i punti sensibili – capezzoli, nuca, lobi, ventre, anima.
Poi lo rimetteva sulla gruccia e lo ricacciava in fondo all’armadio.
“Non fa abbastanza freddo, cazzo” diceva ogni volta, a denti stretti.

4) IRA

Avevano cominciato per telefono, a sussurrargli minacce rosso sangue, e lui non c’aveva dato peso. Poi aveva trovato i proiettili sul davanzale: calibro sette e sessantacinque da otto grammi. Li aveva contati, sei, li aveva messi in una busta, e la busta in un cassetto.
Dopo due mesi s’era presentato uno, con gli occhi bassi e il cappello in mano, e gl’aveva chiesto soldi per gli amici carcerati. Lui aveva risposto che non aveva amici carcerati. Quello, uscendo, aveva sbattuto la porta. Era caduto un vetro.
Quindici giorni dopo, avevano abbattuto tutti gli ulivi della proprietà, di notte. Nessuno aveva visto niente, nessuno aveva sentito un rumore di bosco che cade.
Un mese dopo trovò sul bizzolo una latta di benzina e un accendino, verde. Lui se lo mise in tasca, e regalò la benzina a uno degli operai.
Un altro mese, e gli rubarono gli attrezzi e le macchine: il cantiere rimase un buco spalancato. Qualcuno, la notte dopo, rubò anche i fili di rame dell’elettricità, ma forse non c’entrava niente. I ladri di rame sono una razza a parte. Lui, con una lampada, andava di notte a guardare le pozzanghere e i mattoni rotti.
Intanto le banche gli avevano bloccato i soldi, e gli amici quando lo incontravano cambiavano strada.
Un mercoledì gli fecero trovare due teste di capretto mozzate sul cofano dell’auto.
La notte che la sua casa bruciò – tutta, fino alla punta dei comignoli, fino alle radici di cemento conficcate nella pancia dell’isola – accorsero da ogni parte, ma lui non volle che spegnessero il fuoco.
“Sono stato io” ammise alla fine, quando l’alba di ferro cominciò a spuntare dal mare. “Fanculo” aggiunse, e sembrava sereno.

5) AVARIZIA

L’uomo rantola piano, nel vapore del luminal. Ha gli occhi spalancati, e perfettamente ciechi. La bocca trema da un lato, dove la bava s’è incrostata. Il bip dei monitor è quieto, persistente. Il respiro lo insegue, con una nota bassa, esausta. Il condizionatore non funziona, e l’estate batte dita di catrame sulla parete di vetrocemento.
La donna, seduta accanto al letto, sta leggendo l’oroscopo, sul giornale.

6) SUPERBIA

Tiene gli occhi bassi, quando scantona per la via. Lascia come un vuoto nell’aria, e il suo profumo. La odiano tutte, per questo: gli uomini s’accorgono che manca loro qualcosa, quando passa lei. Forse il mese di giugno che si porta nei capelli, il burro del suo incarnato, quella promessa di albicocche, o di granati, o di guerra civile. Si copre il seno, le mani, le caviglie, ma è tutto inutile: splende attraverso gli abiti e i muri, direttamente nell’immaginazione.
La sua finestra è un occhio di fuoco, forse è l’ombelico del mondo. Gli scuri sono chiusi, le tende doppie e tirate, ma tanto è inutile. Lei brucia appena dietro, come un piccolo sole nero.
Certuni le lasciano, di notte, regali dietro l’uscio. Diamanti, topi morti, gardenie. Merletto, bambole, proiettili. Pianoforti, castagne, rose rosse. Non li prende mai: la serva li butta ogni mattina nello sdirrupo.
Certuni si mettono sotto il balcone, ad aspettarla. Ma è inutile. Non s’affaccerà mai, a guardarci.

7) INVIDIA

L’occhio cattivo si disegna nell’acqua al primo tentativo.
La goccia d’olio si fa cadere lungo il mignolo. Si prende dal cucchiaio, l’olio. E la goccia cade lenta nel piatto, che dev’essere bianco e pieno d’acqua pura.
Attorno al piatto ci sono le parole, respirate strette e mezze ingoiate. Attorno alle parole ci sono le donne, attorno alle donne la stanza, attorno alla stanza la casa, attorno alla casa il paese. Ancora attorno la vita, piena d’occhi cattivi che volano nell’aria.
Nell’acqua e nell’olio si vedono tutti.

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la donna è uno sciame d'elettroni cromatici (Seurat)

 La donna divisa ha una vita faticosa.
Abita troppe case per curarsi del disordine, ma il suo intimo bisogno d’armonia ne soffre. D’altronde, c’è sempre un passaggio, un valico – tra un luogo e l’altro – e necessariamente è un punto caotico, in cui s’accumulano le cose. La donna divisa deve sempre scavalcare un mucchio di direzioni e strade in frantumi, quando passa da un mondo all’altro. Solleva un capo della gonna, con gesto pieno di grazia, e fa un balzo coi suoi piccoli piedi.
 E’ minuta, la donna divisa, e sembra impossibile che lo sia, quando di solito le sue mani si trovano a molti chilometri dal suo volto, nella casa di qua dallo Stretto, per esempio. E’ una casa affaccendata, piena di elettrodomestici che ronzano, di libri da sfogliare che crescono negli angoli – ogni autunno mettono nuovi capitoli maturi, che a volte vengono giù e bisogna raccoglierli – di oggetti riuniti amorosamente: la donna divisa crede di raccogliere se stessa, quando mette assieme gli oggetti, ma sa che è un’impresa impossibile. E intanto il suo corpo si moltiplica, da un capo all’altro dello Stretto, da un anno all’altro, persino tra i fogli e sullo schermo: la donna dissemina se stessa con generosità, estendendo il suo vasto corpo fino ai margini della pagina, e poi oltre.

 Spesso, la sua mano destra è nell’altra città, compone con cura le corolle bianche nel portafiori di bronzo, poi tocca il marmo e la foto di maiolica, menzognera e felice. Non conosce molte altre preghiere che non siano quel breve calore imposto alla fibra refrattaria del marmo. Nel piccolo cimitero gli angeli vegliano assorti, immersi in pensieri di pietra.
 Intanto, le sue gambe sottili percorrono le strade aperte, da questa parte del mare – la parte dell’alba miracolosa e delle nuvole blu cobalto. La città inghiotte i suoi passi, li rumina nella pancia d’asfalto e bitume, e lei corre per arrivare a fare ogni cosa, perché le strade cambiano dimensione ogni giorno e non c’è luogo che disti la stessa distanza.
 Lo scolaro – che oggi ha cominciato un altro anno – tiene per sé il braccio sinistro della donna, intero. Lo vuole attorno alle spalle, per decidersi a varcare la soglia e non sentirsi solo, lì dentro. Vuole il polso sottile con l’orologino di metallo, per guardare l’ora della campanella. E’ piccolo, lui, ma conosce già il tempo diviso, che scorre diseguale tra i mondi.
 Guardando orologi contraddittori, anche la donna divisa avanza: è a casa delle zie, a una certa ora, in Aspromonte, a chiudere le bottiglie di salsa di pomodoro – si fa ogni anno, è l’augurio e lo scongiuro per l’inverno, dentro ci sono una quantità di gesti necessari, spezie, affetti, cipolla, lavoro, basilico, rancori sottilmente affettati, sale, tenerezze.
Cinque minuti prima è seduta alla scrivania, a rosicchiarsi un’unghia e cercare un aggettivo. Intanto sta rifacendo i letti, comprando l’acqua e il pane, leggendo il libro di un’amica spagnola che le apre piccole bruciature felici sulla pelle. Quando il capufficio la chiama, lei risponde: “sì?” e si gira leggermente sulla sedia, voltando le spalle alla spiaggia deserta dove ha steso l’anima sulla stuoia di spugna, per tutta la mattina. E’ la spiaggia del Faro, che è inclinato nella luce nero turchina di settembre e beve già dall’autunno. L’estate della donna divisa a volte dura fino all’inverno, o viceversa.

 Sovente si trova nel passato, la donna divisa: all’angolo del marciapiede si guarda camminare, dieci o quindici anni prima, e vorrebbe dirsi qualcosa ma non può, perché la voce è da qualche altra parte, dal momento che non si viaggia mai interi, nel passato. Se si specchia nelle vetrine, vede i pezzi che le mancano, che ha lasciato più avanti o più indietro, o che non le hanno ancora restituito: c’è qualcuno che possiede da anni pezzi della donna divisa, e nemmeno lo sa, o non se ne cura. Sì, certo, i pezzi ricrescono, attorno ai polsi la corteccia gira ogni anno un giro nuovo, ma restano i nodi dei rami tagliati, restano i vuoti, restano gli arti fantasma che nei giorni di scirocco s’agitano per conto loro.
 Le labbra della donna divisa spesso indugiano su altre labbra, per fortuna, e lei chiude gli occhi, dovunque si trova, per raccogliersi tutta in quel tocco: sono i trucchi della donna divisa, la sua resistenza. Come le fotografie: la donna divisa ne porta dovunque, anche se lo sappiamo tutti che sono bugiarde, pezzi di pezzi, pezzi di corpo dentro pezzi di tempo, e dividono ancora di più. Ma lei spesso indugia sugli album, o attacca le foto al muro con le puntine.

 Intanto raccoglie i panni stesi, e chiude una mail con un punto interrogativo, o forse era uno sguardo, o un panino al prosciutto. Ascolta con attenzione la musica, che però è come il tempo, un coltello, e divide il cuore con solchi profondissimi.
Deve anche comprare i pomodori, quelli cuore di bue che palpitano nella mano, perché vuole regalarli all’amica con la quale, da mesi, baratta solitudini profumate, spille di strass, insalate di pomodoro, conversazioni, collezioni di pietre, carezze al cuscino.
La donna divisa va al mercato dei pomodori, al mercato delle solitudini, al mercato delle pietre, al mercato delle carezze.
Non compra mai tutto quello che le serve. Qualcosa resta sempre fuori.
A volte lei pensa che è la vita, a essere divisa, e per restare interi bisogna seguirla cosi com’è, da ogni parte.

Questo perché ci sono giorni che dovrei essere tre o quattro, e nemmeno basterebbe. Vorrei cinque, ventisette, duecentootto, trentamila vite. E mi sentirei ancora più scema e divisa.

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