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Il padre morto era seduto sulla mantegna laterale, e guardava giù. Il figlio stava in piedi sul praticabile più alto del palcoscenico, che poi era un traliccio del cantiere del Ponte, o la banchina d’una stazione isolana dove i treni passano in fila indiana, o la passerella d’un ministro o la panchina d’un invalido finto.
Non che avesse proprio voluto chiamarlo: di solito il figlio lo chiamava in momenti privatissimi e incomprensibili. Quando scendeva dalla strada a spirale della sua casa romana, quando la luce s’inclinava impercettibilmente oltre il crinale dei colli, e i laghi salini di Ganzirri diventavano neri di colpo. Che poi lo sappiamo tutti: quando li chiamiamo di rado arrivano subito, e qualche volta non arrivano per niente e pensiamo pure d’essere soli. E in fondo la morte non è che una specie di solitudine da tutte e due le parti.
Ma stavolta stava scritto lì, nel copione, nero su bianco: “Cinque discariche, cinque, qui attorno. Cinque discariche per gli inerti del Ponte – e lì la parola “inerti” diventava gigantesca, e si vedeva chiaramente che lui pensava che gli inerti siamo noi, sono i bravi cittadini di Messina sordi e ciechi a tutto, e probabilmente è così – cinque discariche. Una sul cimitero di Granatari… “. Il cimitero di Granatari.
Il padre stava da anni in quel cimitero, buono buono, senza pretendere nulla. Un morto savio, di poco spazio, contentandosi d’invecchiare senza fiori nel vialetto stento, dove il sole acceca fino al pomeriggio, i gatti scarni passano oltre e persino l’erba lascia perdere.
D’altronde, ognuno l’aveva seppellito dove gli piaceva di più. Suo fratello, il poeta, lo teneva nella vecchia casa dove avevano vissuto assieme, lui e il padre morto, per un inverno lunghissimo, giocando a briscola nelle sale vuote, inseguendo pipistrelli e piangendo l’uno di nascosto all’altro lacrime fredde.
Sua sorella aveva troppa fretta per tenerlo in un solo posto: lo teneva per lo più tra i giocattoli rotti delle gemelle, e ogni tanto sbuffava e pensava “devo riparare papà”, ma poi gliene mancava il tempo.
E sua madre, sua madre aveva un numero imprecisato di fotografie degli anni Cinquanta dalle quali non riusciva nemmeno a uscire, certe volte, e toccava stare lì ad aspettarla anche per ore, per aiutarla a togliersi il cappello a larga tesa e i tacchi alti e la malinconia.
Così, quando il copione aveva detto chiaramente, nero su bianco: “il cimitero di Granatari, cancellato”, lui non aveva potuto trattenersi. Alla prima, una volta arrivato a quel punto lì, aveva alzato gli occhi e lo aveva visto, il padre morto, seduto sulla trave, in mezzo alle corde calate dalla graticcia, che lo guardava.
“Papà, mi dispiace, ma è tutto vero!” aveva esclamato, e la gente aveva riso e applaudito, e anche il padre aveva riso un sorriso mezzo e aveva fatto cenno che sì, vabbè, lo sapeva, non ci si poteva far nulla. Non aveva parlato, perché – se ci avete fatto caso – non parlano mai. Sarà perché si esprimono direttamente, con varietà di luce e sentimento che comprendiamo immediatamente. Sarà perché la voce non potremmo sostenerla, ci polverizzerebbe il cuore subito.
E il figlio quasi piangeva, e aveva continuato a dirgli cose, del tutto perdute nel fracasso degli applausi, e il padre aveva risposto che sì, vabbè, e aveva fatto gesti stanchissimi e pochi, con le mani ossute e la vecchia faccia amata.
Gli altri attori e il regista s’erano scandalizzati, e pure alcuni spettatori che lo conoscevano, e sapevano di Granatari e del morto che stava lì senza aspettarsi nulla. Ma a lui non importava: era riuscito a portarlo lì, suo padre, dove non c’era stato mai nessuno, e ora doveva parlargli, altroché.
Lo faceva ogni sera, arrivato a quel punto, quando sapeva che poteva guardare lì, in alto e dentro il sipario, che lui, il padre morto, stava lì e annuiva e gli sorrideva un poco ché sembrava pure gli dicesse, quasi, finalmente, forse, “bravo”.
stasera ho visto M. in scena (davano Lavori in corso al Vittorio Emanuele) parlare con suo padre, e c’è chi s’è scandalizzato, ma io avrei fatto lo stesso, l’avrei portato lì con me, nel cuore del mio mestiere, della mia arte, e ci avrei parlato davanti a tutta la città, quella visibile e quella invisibile, quella viva e quella defunta, quella che c’era e quella scomparsa, tutte quelle che avevano portato me lì, con le mie mosse e le mie voci, e lui lassù, appeso tra le funi, disincarnato e presente.
bellissimo il tuo post e suppongo sia stata sublime l’interpretazione data da Maurizio…. specie nei momenti in cui dialoga col padre morto….
incantata dalla tua scrittura, lo rileggo perché è un piacere unico!