Io mi spello, e il mondo diventa buccia.
Maria, che è spagnola atlantica, scrive in una lingua che non è la sua. O forse che è esattamente la sua.
Usa parole che non hanno complici, parole che trova sole e sfavillanti per strada, ci gira attorno per capirne la forma, le raccoglie e poi le compone come si compongono collane di pietre, giardini di sabbia, collezioni di oggetti dissimili.
Usa parole che devono sorprenderla come lampi improvvisi, strappi arancio in cieli cobalto, flash di magnesio, come a noi di madrelingua e matrignalingua non può capitare: le nostre parole sono piuttosto reti a strascico, ognuna se ne porta dietro altri milioni. Le nostre parole sono abiti, le sue sono semmai pelli appena conciate, o non conciate affatto, ancora calde di un altro corpo: vestita così, come una principessa preistorica, ora Maria, la sua lingua, se ne va in giro per l’Italia in un libretto grigio degli Untitled, i pescatori di perle nel mare dei blog.
Ci sta bene, sopra quei fuochi, quel grigio detitolato, e quella sola parola: "Sicilia".
Sì, perché Maria ha scritto un libro non sulla ma dalla Sicilia: più che l’isola stratificata che noi sappiamo – e in bocca ci dà subito sentori di mandorle amare, polvere da sparo, gelsomino, cenere e gelsi color sangue, e pure sa di camilleritudini guaste e sciascianesimi, di bufalinismi e consolismi che galleggiano appena su un ricco brodo antico di cielodalcamismi e sofismi – è un luogo dove accadono solo le parole, parole appena nate e che deflagrano, parole così vicine alle cose da darti una lieve vertigine, un trasalimento, un sentimento scabroso, come se le sorprendessi nude.
Maria ha davvero attraversato la Sicilia, in un viaggio che non le invidio, perché è uno di quei viaggi solitari che sono sempre pericolosamente interiori (ho sempre pensato che bisogna essere almeno in due per reggere l’opera di scavo e frantoio che fanno i viaggi), e si è tolta con calma, col suo coltellino da viaggiatrice, una per una, le parole da dentro, le parole italiane nuove come miracoli, con lunghi nastri multicolori e luci e disegni sul guscio che noi non possiamo vedere.
Ha fatto chilometri da Palermo ad Agrigento e ha incontrato nomi di assoluta evidenza, nella pietra porosa di Ortigia, nel profilo seghettato delle palme di Monreale, nell’angolo disegnato tra il tavolino di un bar di Erice, un cornicione, un passo, una voce. Maria di tutto ciò non parla, o parla solo di questo, non so bene.
Non so come la Sicilia abbia attraversato Maria, questa Sicilia che io ho sotto gli occhi e la lingua ogni giorno, tanto da assorbirla, tanto da cancellarla.
Che poi ogni viaggio è, in fondo, un esercizio di lontananza (ma mi viene in mente che anche ogni libro potrebbe esserlo), e su un’isola ancora di più: Maria si esercita febbrilmente, perché sta viaggiando lontano da un amore – "come una variante del lutto" – e lontano dall’oceano, lontano da ogni forma rassicurante di grammatica, sintassi, uso comune. E misura queste distanze col suo personale sistema metrico (o ogni stile è un personale sistema metrico?), con le sue parole-bilancia e le sue parole-metro e le sue parole-bicchiere. E le sue parole-palmi, le sue parole-dita, le sue parole-bastoncini e rametti e tessuti.
Come le devono sembrare grandi, certe parole, o piccolissime.
Un po’ le invidio questa possibilità di percepirle così assolute (che etimologicamente vuol dire "sciolte, senza legami"), così piene di se stesse fino all’orlo: io ne vedo soprattutto l’ombra che proiettano sulle altre parole, i bordi, i vuoti, la possibilità di sporgerle oltre il confine, metterle in oscillazione e farle quasi significare altro.
La lingua italiana di Maria mi castiga, vi confesso: mi sembra pura ed essenziale come non riuscirà mai ad essere, la mia. Con le sue asperità che assaporo, la sua bellezza un poco spaventosa – come le gole dell’Alcantara, i garofali che si aprono nelle acque dello Stretto, la campagna gialla e feroce dell’entroterra.
Insomma, tutto questo perché sono letteralmente incantata, dal libro di Maria (e collateralmente dall’intera seconda terna delle signore di Untitled: comincio a sentirmi del tutto presa da questo meccanismo: non avevo mai letto una casa editrice, piuttosto e prima che dei libri)(i loro appunti dalla sala macchine sono, al momento, una delle opere meglio riuscite, e ve li consiglio spassionatamente), e me lo sto portando in giro, proprio nella borsa – che i libri sono pure un poco talismani, ma anche metri pieghevoli, ombrelli, boccali, sassi, bilance, parafulmini, fiori.
Non ho mai visto Maria: la immagino bella, con una bellezza trattenuta invano, e un poco ferita, con qualcosa di rosso profondo. C’è una sua foto, in una delle pagine untitled, che eludo sempre. A volte vorrei guardarla, ma poi resisto: mi piace pensarla come una delle sue parole, così imprevedibili e originarie, e tenermi il privilegio di immaginarla senza la complicità di un’immagine, senza la collusione del corpo, senza parentele e usi e malleverie del linguaggio.
Vorrei sentirla come lei sente una delle parole che non le appartengono, non ancora: un’esplosione nel cielo, una piccola guerra, una piccola dose di tempesta in fiore.
…sa dio con quale corpo mi tengo adesso in piedi…
sbricia qualche brano dai link, verdad. una lingua strana ha un che di originario, come se si riconoscesse una matrice antica comune, condivisa. come scopristi tale talentuosa forgiatrice?
Immaginare una persona leggendo ciò che scrive è fare una radiografia al suo Essere, è leggere l’impronta dell’anima. Al tuo occhio di gabbiano basta la lettura per riconoscere mani sorelle… a che serve la foto?
Io leggo te… così.
palommé, la verità è che sono i nostri corpi più esposti, le scritture… un abbraccio da questa parte del mare.
felipe querido, che dirti: il web è un mediterraneo, e io incontrai sulle sue sponde la bella Maria (ma qui no, non riuscii a incontrarla per un soffio, durante quel viaggio). ma non mi stupisco: anche farolita nostra incontrai qui, e tutto il bene che ne venne (te incluso). perciò amo questo mare…
hai ragione a dire che è come una matrice comune e condivisa, pure se lei viene dall’atlantico, da altri venti: ogni volta riesce a sorprendermi, mostrandomi l’evidenza di quello che sotto gli occhi, sulle dita. ti ricopio qui un pezzetto del libro di Maria (pagina 19):
…non so chi inventò la parola. Si fa con l’isola e con la nostalgia di abbandonarla. Col mare arabo e il mare greco nella distanza. Con la terra assente che trema e la furia dei vivi e la furia dei morti strappati di colpo. Con lo scirocco e la lontananza. Col gracchio dei gabbiani e la mafia e l’antimafia. Con la povertà e le scogliere e le fumerole dei vulcani. Con la pianura e le saline e le zolfare e le rovine. Coi templi. Con illuminati e oscuri, con chiaroveggenti e sordi. Con la prigione naturale del mare che ti chiude tutte le uscite e con lo stesso mare che ti complica il ritorno. Con nondeti e nonsentiti. Coi muri spellati delle case e le case rotte.
Con la solitudine e con la Sicilia, La Sicilitudine, A morriña…
che gran scelta, Brioches, quel quadro con le frutte e i pesci felicemente ricoperti delle sue pelle colorati e quell’animale appesso rotto con la carne alla vista. Poi voi avete il mare partout e nell’atlantico abbiamo uguale tutto mare fino a America, senza scelta. Adesso come mi tengo in piedi qua, si, colpa tua.
Sola non c’ero. C’erano anche i tuoi sms anunziando, Palermo, cieli arabi, o bene, fai cura in quell’autostrada a Messina, guida lento, e tutta fatta in marmore, non correre, scivola.
Poi le parole sono vostre, tante tue. Sono come un teatro, come quando cammini nelle scarpe di un altro o gli attori della Actors Studio ingrassavano o dimagrivano fino a essere un corpo differente, a fare suonare la voce dentro muri nuovi.
Penso come te degli appunti untitled, sono un romanzo. Anna registra e fotografa ogni conversazione e tu mai ti accorgi, solo senti certo caldo, un posto aperto, gentilezza.
Grazie. Spero tornare lì e avere te di guida la prossima volta, te, Missy, il sud della rete. Io darei un mondo per guardarti guardare l’atlantico -che non mi credo che ti faccia paura- e poi sentirlo raccontato da te.
Ascolta mentre Dulce Pontes, se non la trovi te la regalo io.
un abrazo
M
Aspettando di ascoltare con gli occhi le parole di M su cose che mi sono care, ascolto le tue, di parole.
E penso a chi scrive in una lingua che non è la sua: al puntiglio di Conrad, al tormento di Kristoff. Noi ce ne perdiamo un bel pezzo, con l’ulteriore velatura del passaggio alla nostra. Qui dovremmo invece arrivarci bene, a percepire quanto si distilla, si scarnifica e si sublima il pensiero usando parole che non hanno radici profonde, e vanno coltivate con la cura delle piante delicate che crescono in vaso.
E penso al duplice viaggio che celebri: fra cieli e luci non tanto diverse e non tanto uguali, fra suoni e segni non tanto uguali, non tanto diversi. Una lingua vicina, un paese non lontano necessitano di più acume, di più attenzione, per essere visti e ascoltati.
E penso ancora: potresti guardarla senza pericolo, l’immagine di M. Cosa dicono dei puntini colorati (o no: di grigi diversi) addensati in ombre e linee ferme? Non più dei sussulti e dei languori immobilizzati nel filo nero (nero?) che si deposita sulla pagina o sullo schermo. Una foto è come una marionetta a riposo: troppo casuale l’abbandono del braccio sul fianco, troppo indecifrabile il gesto immobile del capo leggermente inclinato. Non sappiamo se quello che ci appare come lieve sorriso è invece il fotogramma separato di un gesto più largo, diverso. Come alla marionetta, mancano le mani che la comandano, all’immagine di un volto o di un corpo. Come della marionetta, non sappiamo com’era (colori, profumi; perduti) il legno in cui sono stati scolpiti i lineamenti, o se la fascia che le cinge i fianchi è stata prima velo di vanità o cencio da rammendo.
Una foto – come un testo – non descrive, non dice: suggerisce, allude, fa immaginare, fa montare delle storie. E’ l’immagine di chi guarda, più che quella di chi è guardato.
Il miracoloso, misericordioso, intrigante gioco che ogni intrico di fili immateriali, d’inchiostro o di elettroni, ci regala (pardon, no: l’abbiamo pagato, lo paghiamo. O forse lo barattiamo): entrare passo passo nelle anime, guidati da frammenti, da lampi, da indizi e da segni.
In ogni caso: nomina nuda tenemus.
a.
hai scritto un pezzo bellissimo M.B.
le parole nei cieli di sicilia sono scintillanti e brucianti come il sole dell’isola.
un libro da leggere e da portarsi dietro come una conchiglia che fa risuonare il mare.
bri
Maria merita questo bellissimo post, e la sua scrittura di essere letta.
…poi…restare affascinato…da sempre…con quel tuo modo…che è tuo…di mettere le parole una dietro all’altra. Una delle poche che merita. A volte mi piace guardare nel fondo, le tue parole sono torbidi vortici.
Mi sono firmato spesso. Ma sono l’anonimo oggi. In fondo che importanza ha.
Maria, Maria, sei sempre tu, tutta qui, con qualunque corpo ti regga in piedi. Ingrassavano o dimagrivano fino a essere un corpo differente : forse leggiamo per avere tutti i corpi differenti che possiamo, che possiamo sognare, che possiamo temere.
Ci sarà un’altra Sicilia, e forse un oceano (e certo Dulce Pontes).
un abbraccio vero vero
Caro Arimane, m’ha sempre appassionata il destino delle parole senza radici profonde: se ogni scrittore deve inventarsi la propria lingua, ci sono casi in cui questa creazione è, se possibile, ancora più ardua, rischiosa, spettacolare. La lingua di Maria non è affatto una lingua mimetica, non vuole minimamente esserlo, ma piuttosto una lingua impressionista e balenante (che è poi il modo rapinoso in cui lei s’impadronisce del mondo e in cui il mondo s’impadronisce di lei). E credo che è un gran bello stare, sotto i lampi di quel cielo.
Dici bene, è un duplice viaggio in cui la distanza tra le cose e i modi è sottile, sebbene determinante (e qui mi vengono in mente altre sottigliezze di cui, in altri contesti, abbiamo parlato).
Quanto all’immagine, probabilmente è un mio timore superstizioso, come se non si dovessero – potessero – sovrapporre linguaggi, segni differenti. Quando poi, hai ancora ragione, non sono che indizi: il colpevole e l’assassinato siamo sempre noi, che entriamo nelle anime perché ci entrino dentro.
Nomina nuda tenemus, ma anche nomina nuda tenemur…
verdemare, hai detto la cosa migliore: un libro-conchiglia che ti sussurra in una lingua che non conosci ma riconosci.
arden, sono d’accordo: Maria merita di essere letta, e merita lo sforzo di fioritura che le Untitled stanno compiendo.
anonimo, non ha importanza: come si diceva qualche riga più su, i nomi sono nudi. ciao
dice Maria:
la lingua è una cosa che accade.
Lo trovo magnifico.
La lingua è acadimento, è circostanza, è corpo, ed è viva.
E un qui e adesso.
Ammoniva Palmasco a non fermarsi alla fascinazione delle parole di Maria, a scendere nel signficato di cosa scrive.
Vero (io ci ho provato, tre tentativi, tutti andati a vuoto)
Ma la fascinazione è importante: le parole hanno ruolo di scaturigine – si nominano le cose, e le cose sono.
Non so, a me le scritture di Maria non servono per riparare l’autoclave, ma per fascinarmi e rifascinarmi, e crederci.
Significato mi pare una parola vuota di significato. Sarà che sono una tossicomane del significante. E pure Lei, Herr Effe, altro che morigeratezza sabauda, anche Lei mi pare un tossico pesante. Anche Lei ci crede.
le parole di maria non c’è bisogno di capirle o metterle in fila.
è strano come, pur scrivendo in un’altra lingua, lei le accosti in modo da dare il significato preciso, muscolare, ad una frase.
le sue parole hanno forza dentro una per una, la frase spesso gira dietro volte impreviste, arresti, senza schema.
non c’è da capire niente, più da ascoltare le emozioni che singolarmente eruttano.
tipo vulcano magari, dato che è sicilia 🙂
e-ruttano come gli arabi per anunziare un bel pranzo?
🙂
Ho avuto lafortuna di vedere Maria per due volte due,
na fortuna pazzesca,
abbiamo passato insieme ore ed abbiamo pure mangiato e bevuto e le ho fatto pure un ritratto abbastanza brutto ( e me ne vergogno).
Essa è bella.
Ed ha costruito questo suo modo di scrivere con una ricerca strenua, attiva, amorosa sfilando a volte sfilacciando le parole in suono e significato con un sentire da innamorata che del suo amore tutto vuol conoscere e sondare.
Abbiamo pure intessuto insieme
anni fa strane storie su Holdenforum con forti divertenti vene di follia.
Mario
Ma che splendida recensione! Vado a leggermi questa Maria.
Ma non mi va di commentare questo post. Ti ho scritto un’e-mail.
le persone ruttano, sici.
i vulcani eruttano, o ribollono, o esplodono così: bum.
bello! e poi UNITLED è una garanzia di qualità!
Da come hai descritto questo libro deve essere semplicemente fantastico, ne avranno di certo lasciato una copia per me.
E’ sempre una grande emozione leggere i tuoi post, un modo per donare un pò di buona qualità al poco tempo che mi rimane.
Un caro saluto spero in futuro di riuscire ancora a leggerti.
era una battuta boba, pispa
spero ti piacia questa volta, arden 🙂
mario, sono un bel ricordo quelle storie
il resto, il post, è lo sguardo di brioches sulle cose, nebbie, cantanti, stretti, zie, isole, libri, scrutatori, lei ha la fortuna di vederli con quei occhi esaltanti, poi fa realismo magico siciliano
grazie ancora
un abrazo
M
Ma io ho sempre apprezzato la tua scrittura, @maria, (e anche le traduzioni:-))
bel ricordo
bel ricordo come la vita dopo una guerra, mario. guardi indietro e vedi le foto che gino chiamava di comunione e ti vedi i capelli di adesso lievementi alla brace e pensi si potra dire adesso minchia in Italia?.
magari esagero un poco
bel marte dì
🙂
Ecco, così:
E, comunque, “michia” si può sempre dire.
Baci e lava a tutti.
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