Leggero come la pietra, pesante come l’acqua.
Bianco come la notte, nero come il mezzogiorno, odioso come l’amore.
Nella casa d’angolo si cresceva così, con convinzioni rovesciate e strampalate che però spiegavano i mondi. Gli angeli camminavano in soffitta, s’andava a trovare dio dietro la cortina dell’aria sottile, nel palazzo di pietra che galleggiava nel cielo, eppure il cuore di chi era vicino restava lontanissimo, in qualche aldilà dove non si poteva raggiungere mai.
Nonna Carmiscina c’insegnava a leggere ragnatele, malumori e nuvole da sud, e invece diffidava di ciò che era scritto sui libri, che poi i libri erano il codice civile e il breviario del signor parroco: due libri nemici, due armi. Si potevano combattere, però: col sale e gli scongiuri uno, con la roncola l’altro.
Leggevamo l’acqua, che aveva un sapore vecchissimo ma qualche volta cambiava, e allora voleva dire che arrivavano matrimoni o sciagure, o tutti e due. Leggevamo nella camminata del ragno sul davanzale, nell’inclinazione della vite di famiglia – quella che era una parente stretta e un oracolo, e annuiva, appesa e blu, ogni volta che aprivamo la porta, aspettandoci al varco: io ne avevo paura, sapevo che, semplicemente, voleva prendere il nostro posto. Leggevamo nella farina, nel granturco, nei ciocchi di legna accumulati dietro la casa, dove facevano il nido certi topolini bianchi e pure gli scorpioni neri, che lottavano tra loro l’eterna lotta del mondo. Leggevamo nel carbone, persino.
Un giorno, facevo le elementari, presi un pezzetto di carbone, quasi una matita, ma irregolare e d’un nero che sporcava le mani, e scrissi sul muro della casa, lettere gigantesche che mi suggeriva il carbone, che voleva dire da tanto tempo, quando andavamo a frugarlo nel suo sacco. Lui dettava e io scrivevo, sul muro imbiancato a calce, un messaggio buono per gli occhi dei giganti – che a Mezzagosto scendevano dalla montagna per andare alla festa.
Gli altri bambini, i miei cugini e mio fratello, i figli dei vicini di casa, i figli dei compari e delle commari, i figli dei nemici, erano spaventati: ora la nonna t’ammazza. Io pure ero spaventata, ma il carbone non mi lasciava andare. Così non avevo scelta: continuai a scrivere finché non finì il muro, e allora il carbone mi disse di scrivere sul muro del baracco della legna, che pure non era bianco ed era pieno di chiodi e di muffa. Scrissi fino a quando finì il carbone, si trasformò tutto – che comunque il suo destino era trasformarsi, diventare fuoco, braci, diamanti, parole – in lettere storte e nere ed enormi.
Ero lì, confusa, a rileggere, quando arrivò di corsa la nonna Carmiscina, tenendosi le gonne con la mano. Stai bene? mi disse, preoccupata, e mi sentì la fronte – lei leggeva le fronti.
Non le risposi, e lei mi guardò dentro gli occhi – perché leggeva le anime.
Vieni, vieni, figlia, mi disse e mi portò via, e gli altri bambini erano sicuri che m’avrebbe ammazzata e gli dispiaceva non vederlo.
A casa mi portò nell’ombra chiusa a chiave del salotto buono, e mi diede un dito di vino dolce – che era dorato e vecchio, e potevamo leggervi chiaramente una storia di legno, attesa e miele profondo – confortandomi, con parole d’affetto e di scongiuro.
Non sei arrabbiata? le chiesi, un poco esitante.
No, figlia, mi rispose, meravigliata.
Ci pensò un poco e aggiunse: però stai attenta. Le cose più pesanti che esistono sono le parole. E batté un colpo sulla tavola di noce – dove si potevano leggere venature ammorbidite, lavoro a cera, striature del tempo, il cerchio d’un bicchiere.
Annuii, e bevvi ancora il vino. Ce ne restammo in silenzio, poi.
Questo a chiosa delle interminabili discussioni dei giorni scorsi su letture e scritture, leggerezze e pesantezze. Forse è leggero ogni atto di scrittura, toglie peso al mondo e lo trasferisce altrove, su qualsiasi specie di carta, che diventa allora pesantissima, per quanto possa essere sottile. Forse viceversa, il pianeta è appesantito a ogni atto di scrittura, e allora occorre leggere, leggerlo tutto – fogli, foglie, fronti, frontespizi, retrovie, muri, specchi e tomi – per togliergli peso, e farlo respirare. Non so. Nel dubbio, scrivo: è leggero e pesante. E si può sempre lèggere…
come ripeto
(i vecchi lo fanno, ripetono le cose, noi crediamo sia per decrepitezza, e invece stanno raccontanto le sole cose importanti del mondo)
le parole edificano mondi.
Sono quindi basalto e marmo, silice e quarzi.
Per questo trovo l’immagine e metafora del muro scritto, così fluida e vera.
le parole sono muri, mattoni tegole, sono lastrico di strade, mulattiere, porti e navi.
Le parole sono oggetti, e hanno peso specifico (dovrà pur esistere una tavola delle parole, come per gli elementi chimici).
Leggero è il modo di portarsele addosso.
Sulla calce di un muro che nullaci vieta immaginar come infinitoun uomo si è seduto e ha stabilitodi dipingere in modo rigorososulla bianca parete il mondo intero:porte, bilance, tartari, giacinti,angeli, biblioteche, labirinti,ancore, l’infinito, Uxmal, lo zero.Di forme il muro popola. La sorte,che di doni curiosi non è avara,gli consente di concludere l’impegno.Ma nel preciso istante della mortescopre che quel vasto guazzabugliodi linee è il disegno del suo volto.(Jorge Luis Borges, La somma)
🙂
Si scrive anche per non lasciarsi andare e si legge, spesso, per lasciarsi andare. Un bacio.
G.
(ma lo sai che questa di Vermeer è la prima cosa che ho appeso nella mia nuova casa, nel mio primo studio? quando mi ero trovata davanti all’originale hanno dovuto trascinarmi via, che “bello è bello, ma non è che possiamo stare qui tutto il giorno”)
volevo dire questa “lettrice”, che poi è anche la firma, ma non ho ancora capito come si fa a usare grassetto e corsivo, qui
Ho due task aperti: questa pagina e una window che inquadra una bella fanciulla dallo sguardo intenso e sognante.
E’ la foto di una mia fidanzata di trent’anni fa (che non ricordo di aver mai scannerizzato). Questo per dirti che lo schermo del pc non è adatto alla lettura, non va bene. Vi si creano strane, inspiegabili interferenze. Ecco: adesso guardo quello sguardo e vedo questa pagina in filigrana; e viceversa.
Chiudo l’altra Window, leggo e poi ti dico.
La nonna Carmiscina aveva ragione. Le parole sono le cose più pesanti che c’è al mondo. E forse il mondo non è altro che parole, scritture.
Sono talmente pesanti che, quando è un essere umano ad adoperarle (il più adatto, o il più inadatto a crerne di nuove – chissà), si librano a prezzo di un grande sforzo. Il decollo richiede grandi ali (di cui l’essere umano non è normalmente dotato) e un grande impegno, oltre che lunghi, faticosi esercizi di volo. Ma quando riescono a prendere quota…
Ci sono anche parole che svolazzano come polline, ma quelle non sono parole vere e proprie, sono limatura di parole, polvere sollevata dal battito di poderose ali altrui, che si deposita sulle cose e le rende opache.
Però hai ragione anche tu, e la tua è una splendida intuizione: leggere, decifrare il mondo, le scritture (poiché ogni cosa è scrittura), rende il mondo stesso più leggero. Pesante è ciò che rimane privo di senso, indecifrato.
Dappertutto trovi scritte cose da leggere; o forse tutto è scritto in ogni cosa e noi dobbiamo riscriverlo, apprenderlo, ripeterlo in nuova e mai nuova scrittura. Scrivere è il modo più straordinario di leggere, e leggere è la capacità e la volontà di ripetere, di replicare una porzione di scrittura che si offre quasi-disvelata alla nostra conoscenza e che riscriviamo per completarne lo svelamento. In questo replicarla noi la stacchiamo dalle cose in cui è incisa, la rendiamo leggibile, leggera.
Ecco che di nuovo dalla tua scrittura zampilla nuova scrittura. Sennonché questo commento, questo vaniloquio, è replica imperfetta, copia malriuscita: qualcosa le cui ale inadeguate strisciano per terra e sollevano polvere nel goffo tentativo di staccarsi da… da terra (non trovo un’altra parola).
Vedi come tornano, le parole, Anna, vedi che spostamenti d’aria, anche grazie allo zampino del tuo fedele ammiratore quissù?
Ti ricordi quella volta e quel commento in cui si disse che il mondo era scritto in origine, che il primo uomo non inventò alcun nome, perché i nomi li leggeva? Che le cose, oggi, tutta la materia reca in sé i residui, le tracce, le sillabe a volte smozzicate ed esauste di quella scrittura primordiale. Ciò che ha resistito alle cancellature del del tempo.
Mi ricordo che l’idea ti piaceva… 🙂
A proposito: cento anni fa nasceva Billy Wilder.
un primo esempio di writing spontaneo.
quindi non conta l’età o altro, è solo espressione, uno dei modi di esprimersi.
la parola, la forma, il suono, i silenzi, il contenuto, la consistenza, il vuoto, il profumo..
quanti modi di esprimersi ci saranno?
qualcuno li ha mai contati?
E’ da un po’ che provo a cercare le parole per un commento. Immagino quelle lettere storte, nere e enormi, lo sguardo di nonna Carmiscina, e il tuo sorseggiare il vino con lei. Le parole che cerco volteggiano nella mia testa, leggere, e piombano sul cuore, pesanti. Farle uscire ora non mi riesce.
ho avuto due nonne io. una che mi ha insegnato il peso dei numeri, una quello delle parole ed entrambe leggevano nell’acqua come su un foglio scritto.
“…gli altri bambini erano sicuri che m’avrebbe ammazzata e gli dispiaceva non vederlo”.
Questa sì che è gioiosa leggerezza sulla tragedia! 🙂
Un bambino di Nazca avea lo stesso problema, lui però disegnava. Bisognava essere leggerissimi per vedere i suoi disegni.
“nell’inclinazione della vite di famiglia” o, ancora “portò nell’ombra chiusa a chiave del salotto buono, e mi diede un dito di vino dolce – che era dorato e vecchio, e potevamo leggervi chiaramente una storia di legno, attesa e miele profondo – confortandomi, con parole d’affetto e di scongiuro”.
Confesso che, al di fuori di ogni riflessione critica (di cui non sono capace), mi ha davvero commossso la tua prosa, per una dimensione remota che conosco. Complimenti.
ENRICO DE LEA
L’ava comprende e compie un rito iniziatico (il vino!). Lei è una strega e sa del Dono, della Maledizione. Anzi, è stata lei a trasmetterla. Appena i Segni si manifestano, chiama la Prescelta in disparte, le dà da bere il vino dolce delle streghe e le rivolge “parole d’affetto e di scongiuro”. Lo scongiuro, però, è superfluo: nonna Carmiscina sa che non c’è niente da fare…
Ma dov’è finita la benedicta in mulieribus?
Le amiche degli amici sono mie nemiche, di solito. Ma questo incantesimo ha stregato anche me. Sono combattuta.
Herr Effe, una volta incontrai un tipo balzano che m’illustrò la sua teoria delle parole-cose. Era un barbone, dormiva sulle panchine e cambiava città ogni tre giorni, a caso. Più ci penso, più mi rendo conto che forse era dio.
Stefania, non diciamo mai nulla di nuovo: passiamo il tempo in autoritratti, senza saperlo… (un bacio).
E viceversa, G, dolce amico dell’estate.
cara lettrice, è chiaro che quest’immagine me l’hai suggerita tu. non sapevo che addirittura avesse una storia, ma non mi sorprendo mai delle coincidenze. quelle mi sembrano necessarie: mi sorprende di più il caos. (e comunque io ho una cotta per Vermeer: potrei guardare per ore i suoi quadri, aspettando che accada qualcosa, non so cosa).
giowanni, appunto: non esistono le coincidenze. esistiamo noi che ce ne accorgiamo e pensiamo siano strane. anche le parole, come vedi, si costituiscono spontaneamente in nessi, ponti, catene. (e Stefania ha ragione: siamo tutti già scritti, ma non lo sappiamo…)(bellissima, quell’immagine. ci vorrebbe un link, qui…)
marypispo, per fortuna non si sa, quanti siano. ne nascono di continuo di nuovi, e si perfezionano i vecchi (incluso il silenzio, il buio, l’assenza)(ma non sono i miei preferiti).
giorgi, le parole lo scelgono loro, il momento.
onecat, le cose scritte sull’acqua sono tra quelle che mi piacciono di più.
missy, la tragedia è un genere notoriamente leggero, qui. qui facevamo i mondiali di tragedie quando altrove scheggiavano le selci.
aquatarkus, è lo stesso bambino che si diverte a scarabocchiare di cerchi il grano, vero?
Grazie, Enrico De Lea. Padri, ulivi, pietra: ho visto che anche tu cerchi i tuoi confini sacri, nello spazio e nel tempo.
giowanni, e non ti ho raccontato di quando le zie costrinsero il mio fidanzato a mangiare il sanguinaccio…
oddio solomaria, tu mi preoccupi. io sono fisiologicamente incapace di farmi nemiche. è un problema.
Un racconto che chiosa dei commenti, quindi un po’ d’occasione, estemporaneo, commento anch’esso, sia pure un commento scritto da questa signora Anna Mallamo davanti a cui uno deve solo togliersi il cappello e fare un inchino. Scrittura che si mescola con altra scrittura. Ma proprio questo m’inquieta un po’. Prima di internet la scrittura e i “commenti” dei lettori o dei critici restavano separati, questa separazione era un privilegio dello scrittore, che doveva rendere conto solo a se stesso, e se era un vero scrittore certamente non voleva compiacere nessuno, lavorava da solo, per mesi, per anni…
Non nego che anche quando è d’occasione la tua scrittura ha una grande forza, ma devo dire che molti racconti letti uno dietro l’altro di là mi parlano diversamente, più intensamente, forse perchè non ci sono altre parole e colori e immagini che disturbano.
Abbiamo un bel dire che scrittura è tutto in tutto ecc, discorsi suggestivi. C’è scrittura e scrittura. Uno scorpione disegna sulla sabbia, la pioggia scrive sulla pietra, ma è un’altra scrittura. La scrittura fatta di parole è un gioco che si gioca sulla pagina, come il calcio si gioca in un campo di calcio. Può andare bene anche un prato, forse ci si diverte anche di più, si è meno competitivi, meno ambizioni ecc., ma il prato deve somigliare a un campo di calcio, non può essere in pendenza, gibboso, la sommità di una collina o dentro un lago, dove al massimo si può giocare un gioco con la palla, ma sarà pallanuoto…
Scusami se rompo
con grande stima
marino f.
Volevo aggiungere, per essere più preciso, che meno il campo su cui si gioca somiglia a un campo di calcio, più ci si allontana dalla possibilità di giocare quel tipo di gioco, che ha le sue regole, che è nato per quello spazio, fatto su misura per quello spazio. Vogliamo dire che la scrittura si sta allontanando dalla pagina e invade altri spazi? Va bene, magari sarà una nuova arte alla fine, ma non sarà più la scrittura come l’uomo l’ha praticata per secoli. Sarà una cosa nuova.
Del resto non dobbiamo ripetere qui ciò che diceva McLuhan: “medium’s message”. Il medium non solo cambia il messaggio, ma è il messaggio. Ora non so se questo significa che gli scrittori della rete sono la rete informatica che si serve di loro e delle loro antiche parole per affermare la sua esistenza. Non voglio dare un’interpretazione così radicale delle frase di McL.
Mi rendo conto che il discorso fatto così non dice molto, andrebbe approdondito.
marino
…eppure è così lieve leggerti.
Le parole sono pietre,
le pietre si erodono e si fanno sabbia,
la sabbia segna il tempo delle clessidre,
il tempo si allegerisce leggendo,
quando ciò che si legge suona lieve.
le parole hanno un peso,
specie se son scritte,
mezzo chilo fa questo libro qui,
ti dico,
specie se sono su muro altrui con carbone, allora sono cazzi acidi ovvero paturnie grosse o calcinculo vari,
se proprio muro c’è restituzione di scappellotto o manrovescio se non colpo di scopa o battipanni,
meno male di nonna Carmiscina, la lungimirante, essa vide l’interior della nipotina carina e diede vitale leziòn senza mazziata,
ecco.
Tu tieni sempre u ritmo, Anna, che anche se non capisco il senso sento tatùm
tatatatùm
tatùm tatùm,
la cadenza antica tua,
o Annuzza
Vabbè
Mario
no, sbagliai,
la cadenza tua fa:
tadùm,
tatim tadùm,
tadin don, tadin tadòn tadòn,
tadin tadùm,
tatatara tadin tadon tadàn…
….
tadùm,
tatim tadùm,
tadin don, tadin tadòn tadòn,
tadin tadùm,
tatatara tadin tadon tadàn
Io non so dire nulla sulla pesantezza e leggerezza delle parole in forma di discorso o riflessione: mi pare che ogni volta che si parla di cose di questo genere fuori da un racconto una parabola o una poesia l’argomento diventa noioso e ozioso.
Il tuo è un racconto come sempre delizioso e incantatore e dice qualcosa che ogni commento non può che aggravare.
I pesi si spostano, tu dici, dall’anima al foglio di carta. E adesso che dalla carta sono passati all’isola felice dei Feaci, non posso che applaudire all’
INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL’ETERE.
In quel sito trovano un ulteriore livello di sublimazione: i materiali più magmatici, quelli che porterebbero verso il basso, diventano volatili e leggeri, restando tuttavia densi.
caro marino, il dibattito è epocale, e temo di non avere assolutamente gli strumenti per affrontarlo. Però, del tuo discorso, mi pare risalti in modo inequivocabile il concetto di “regole” e – per restare nella bella metafora del campo di calcio – di “misure”. Io credo profondamente, a regole e misure: sono quelle che fanno il testo. Dovunque, poi – o prima – sia scritto. La misura è la regola interna, il rigore col quale è scritto. E la misura è anche la possibilità di stare diritto da solo, non appoggiarsi ad alcun – attenzione, parola chiave – contesto. Qui il blog può fornire, fornisce senz’altro un contesto, e consente, può consentire, ai testi d’appoggiarsi, di perdere in misura interna, in asse, in postura. Magari senza che i testi in questione perdano freschezza, vivacità, appeal. Restano divertenti, persino belli. Ma non stanno in piedi da soli.
Ecco, trovo che questo accada spesso, ma non sempre. In molti angoli della blogsfera, ma non dappertutto.
Ci sono luoghi in cui c’è misura, rigore, regola, e i testi ci danno l’impressione di essere lì per caso e per ventura, ma li vorremmo su carta, magari, per goderceli nell’altro contesto, quello che per tradizione e condizionamento e riflessi appresi (chiamatelo come volete) riteniamo acconcio al manifestarsi della “letteratura”.
Ci sono luoghi in cui c’è vivacità, intrattenimento, frammenti di cose notevoli, semilavorati interessanti (e a mio avviso questo accade nella maggior parte dei casi), ma niente di più.
Ma giuro che vorrei cinquanta centesimi per ogni volta che questo discorso viene fatto e rifatto in rete. Allora potrei persino smettere di lavorare. un affettuoso saluto, e un grazie per l’acuta attenzione.
aitan, mi piace questo dissolversi della pietra. E’ leggero, e bello da leggere…
Marius! bentornato Mario mio, Mario Pappù, Mario congas e Mario compàs. Mario tapùm tapùm tapùm tirintontàn. Tin tin.
arden, è il motivo per cui cerco di parlare in un altro modo, delle cose. Mi risulta sempre troppo pesante, quello che penso. Allora devo togliere, togliere e rendere leggero…
naima, è proprio il bello della trasformazione degli elementi, che solo la scrittura può compiere in questo alchemico modo. I Feaci hanno un’officina di trasformazioni, in cui il magma diventa nuvola, e viceversa…
Il ritmo, in effetti, è una cosa di cui non si era parlato. E’ difficile parlare di ritmo, bisogna batterlo. Ma non voglio aprire un nuovo dibattito. Stasera, più che di fare il (ri)animatore culturale, avrei bisogno di essere rianimato, con quest’afa.
Però una cosa devo dirla, anzi 2.
1) Sull’ultimo tatùm dell’ottimo cf05103025 non sarei molto d’accordo. Fa ta-tat-ùm, e non tatùm.
2) Ma cos’è ‘sto “Mario mio”? E lui ti chiama Annuzza…. Grr!! Nonché Granff!
ottì
Ho paura che il mio non sia solo un amore letterario, ormai. Anuzzinuccia mia, vedo il tuo dolce logo briochesco dappertutto, me lo sogno di notte.
E’ grave?
Giungo da te per la prima volta e m’incanto di fronte al tuo scrivere sul muro.
L’utente anonimo sono io: ho litigato con splinder che non vuole mai riconoscermi.
Non commento, mi inchino: qui c’è solo da godersi la lettura parola per parole, immagine per immagine e lasciarsi catturare. Io catturata sono.
Mi sembra un buon contributo alla discussione.
aquatarkus, questo Clerici “ricomposto” (o colto un momento prima della disgregazione) non è un buon contributo, è un contributo assolutamente strepitoso. sono ammiratissima.
grazie triana, anche per il sicilianissimo “catturata sono”, che mi piace moltissimo.
nuvolediparole, che dirti: splinder boicotta, quando può. chissà che belli sarebbero, i blog scritti tutti sui muri…
giowanni, è normale che tu veda ovunque brioches, e pure granite. qui da noi succede a tutti, in estate soprattutto ma non solo, e non è grave. inoltre, sappi che Marius è il mio padre spirituale e dispensatore di ritratti di trispiti. Marius è indispensabile.
Indispensabile anche nel senso che si può mettere in dispensa, in prevsione di giorni più pesanti e umidi, quando senti proprio bisogno di un buon commento messo sotto spirito, per rianimarti un po.
Allora apri la madia, prendi con delicatezza uno dei commenti in composta o sotto sale oppure olio o in agrodolce, ci soffi sopra, ed ecco che un Mario-commento sprizza e sferraglia, ancor mordace, corccante e lustro, e fa giravolte e piroetta e alla fine fa la linguaccia, ti sberleffa e scappa via.
ecco, d’inverno possiamo farcela solo grazie a queste provviste (e poi dicono perché uno ha un blog… è questione di sopravvivenza, di resistenza umana, di rifugio antiatomico)
Carissima M.B., vorrei meritarmi tutta la sua ammirazione, ma purtroppo il genio di Fabrizio Clerici aveva già concepito il suo anello ricomposto in un quadro della famosa serie, io non feci altro che scovarlo nei meandri di internet e riportarlo qui. La differenza che c’è tra il genio e l’ingegnarsi.
Ahimè, mia signora, temo di non meritarmi la sua ammirazione, da indirizzare piuttosto al genio di Fabrizio Clerici, che sin dall’inizio dipinse l’anello integro prima della sua esplosione. Io cercai l’immagine, più rara dell’altra, perchè sapevo della sua esistenza avendo visto il quadro in una splendida mostra a Valle Giulia. La differenza tra il genio e l’ingegnarsi.
la differenza tra essere colti e raccogliere cose qua e là (io): non ho mai visto un Clerici dal vivo, solo online, dove c’è poco e disperso. Ignoravo l’anello… mancante. E invidio la mostra di Valle Giulia. E comunque, mi tolgo di nuovo il cappello davanti alla Sua scelta, che mi piace moltissimo.
I tuoi ultimi tre post, trasformati in pdf e debitamente stampati, come del resto si conviene all’opera di un grande autore siciliano, oziano, ovviamente da tempi diversi sulla mia scrivania, oggi ho deciso e per non fare crescere il lavoro inevaso mi concederò tre commenti tre…
La mia “nonna Carmiscina” si chiamava “la vedova Simoni”, di professione insegnante, ed è stata lai ad iniziarmi al magico mondo delle lettere, prima con la matita, pagine e pagine di aste diritte, vergate faticosamente da quelle mani che non volevano imparare la disciplina e facevano correre la punta qua e là in magnifiche rune, poi via via aste inclinate a destra, poi a sinistra, e la conquista delle prime lettere a stampatello maiuscolo A di arcobaleno, E di edera, O di occhio, U di uovo, I di imbuto! E’ stata lei a insegnare a me e ad altri quaranta discoli dal grembiule nero, colletto bianco e fiocco blu il fascino delle prime letture, le prime favole; mi ha portato alle prime conquiste, a quel gusto della lettura che non mi ha mai abbandonato da allora. E poi, è stata lei che mi ha fatto recitare per la prima volta!
ci vorrebbero altre nonne così e insegnanti…
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