Il paese si regge sulle voci. Comunica in ogni sua parte attraverso le voci.
Al mattino presto le barche si svegliano quando il mare è ancora una colata di ferro, freddo come l’inizio del mondo. L’altra sponda è allora così vicina che la si può toccare con una mano, stando in piedi sui ciottoli neri della riva.
Le terre, d’altronde, si separano all’alba, quando nessuno guarda, e il mare riemerge come un fiume sotterraneo, perdendo il nero di caverna che ha acquistato durante la notte, e prendendo poco a poco tutti i toni del metallo, fino al celeste. Ma questo è un segreto che conoscono in pochi: pescatori, marinai dello Stretto – che hanno una loro qualità silenziosa di testimoni di miracoli – camminatori di bagnasciuga, insonni.
Allora cominciano le voci. Le navi traghetto si chiamano con lunghi muggiti che risuonano tra le sponde, i pescherecci si chiamano con suoni rapidi e taglienti che saettano a pelo d’acqua, gli uomini si chiamano con urla modulate e lunghe alcune miglia marine, che hanno il compito di risvegliare l’orlo rosso del giorno.
Poi le voci si trasferiscono a terra: i venditori di gelsi, pomodori, alici, rosmarino, zibibbo e angurie vanno per le strade, cantando. Le loro voci salgono al secondo piano delle palazzine, muovono il giorno fino ai soffitti, fino allo smerlo delle tendine a godet, fino all’orlo delle stanze – che di notte sono acquari, scatole marine attraversate da sogni come pesci-angelo.
Le donne calano panieri, o scendono in strada con i portamonete dalla chiusura luccicante. Raccolgono frutti, ortaggi e briciole di voci, e li portano dentro le case, che si colmano di fitti chiacchiericci, leggeri come la luce.
Più tardi passa il furgone del pane: suona tre volte il clacson, che fa un suono come un ritorno, un va-e-vieni, una scala melodica di tre note. La gente si sporge dalle finestre per prendere il pane avvolto in carta marrone e allungare le monete. E’ lo scambio più vecchio del mondo, una moneta per un pane, entrambi dalla superficie scura e come consunta, entrambi vecchi come il mondo. Nessuno sa dove facciano quel pane, o chi siano i garzoni in canottiera che suonano il clacson tre volte: il pane è sempre originario, dice tutto e basta a se stesso. Il pane è una risposta implicita.
Il resto del giorno è pieno di voci che salgono e intrecciano strade e case, voci rasenti il suolo – specie durante la canicola, quando il mondo s’acquatta basso e chiude gli occhi – voci proiettate sulla bocca del mare – nei lidi si scatenano musiche che passano sopra i bagnanti e finiscono tra le prime onde.
Ma è di sera che si levano i richiami.
Le donne allora chiamano i bambini, con nomi lunghi lunghi che sono invocazioni, orazioni amorose, legami. Le voci delle donne fanno il giro dei laghi, nuotano nell’aria liquorosa del tramonto, solcano la sera con qualcosa di struggente. Le donne chiamano i bambini, gli uomini e se stesse, perché la sera si fa la conta di ciò che è sopravvissuto al giorno, di ciò che dura. Ai richiami delle donne si mescolano rumori bassi, di sponde che si cercano – tra i laghi, sul mare, sui bordi delle terrazze – di siepi, di eucalipti che respirano forte, di gelsomini che liberano vampe odorose.
Le voci rimbalzano, si rispondono, s’allacciano.
La notte le inghiotte tutte, nella sua metà silenziosa – tra le lampare, nelle macchie, nei laghi chiusi come occhi – e nella sua metà sonora – in piazza, tra lo schermo gigante e gli altoparlanti drizzati tra le panchine, nei lidi disegnati dai faretti, sulle verande interminabili dove le falene volano diritte contro le lampade. Si spengono, infine, in un’ora buia che non appartiene a nessuno, e in cui nessuno – in quel tacere – riconoscerebbe il paese, lo Stretto, la vita.
Nel paese dove passo qualche giorno d’estate, le voci sembrano sempre venire dalla stanza accanto. E con le voci gli odori.E sembra di vivere in strada anche ad una come me, notoriamente chiusa dietro le persiane.Tuttavia in ascolto…
(pane sacro di de pisis. ci stava. che poi a strizzare gli occhi, sul fondo, c’è anche un po’ di quel mare lì, ma solo un po’, che de pisis ce ne mette sempre pochissimo di mare, solo per giustificare quell’aria salmastra che si respira sulle sue tele)
Quante onde ninnano quiete la tua sera.
Ho letto tutto e mi prese la melanconia.
Sarà male, non lo so, credo di sì, perché ho pensato ad un mondo, questa armosfera tua che svanisce di giorno in in giorno:
e dico tuo perché un mondo simile un tempo era il mio, era pure qui, in certi angoli di Nord Italia, più di cinquanta anni fa,
ora non c’è più,
niente più cestini calati,
vecchi su di un tronco a fumare il toscano ed a commentare,
mucche che tirano il carro,
lasciano un loro letame,
un poverino tutto storto passa col secchiello a raccoglierlo,
donne con fazzolettone in testa, grembiule grigio o nero,
sudate tornano a casa zoppicando con zappa e rastrello,
odore di conserva, minestroni, lisciva di bucato fatto nel cortile, stalle, maiali, galline, conigli
ed infinite mosche che fanno bzzz bzzzz bzzz…
e ti dai mille pacche
e non si finisce mai
MarioB.
le voci sono tutto, e tengono assieme i mondi, le sponde, il passato col presente e il suo piede veloce.
Grazie residuodimmagine, adotterò quel pane, che mi sembra un po’ più sacro del mio.
Ricordo di aver scritto u commento qui, stanotte. Ricordo di aver ricordato sia Creuza de ma sia un Breviario mediterraneo. Ricordo di aver inviato un abbraccio. Forse ho sognato, o forse le voci si cancellano, come tutto.
Quella lì sopra è caracaterina. Stavolta è proprio sbadataggine.
Che bello. Ritrovo tantissimi pensieri e sensazioni in questo ascoltare i richiami che rimbalzano, intrecciando la rete sottile che, come dici tu, tiene insieme le cose.
Le nostre scritture sono lontane. Forse è questa lontananza la ratio vera e propria dell’emozione che provo ogni volta a leggerti, un tessuto sottile di fibbra verde naturalmente, come la speranza e l’invidia. E come sai io sono incurabile, la sartoria non è il mio mestiere, ma capita spesso che io cerchi involontariamente di riconnettere l’uncinetto delle tue parole ai ricami di stracci del mio mondo, e così mentre tu parli di voci che svegliano lo stretto, popolando mare, terra e cielo di suoni e note ancestrali, eppure concrete, reali all’inverosimile, il ricamo che la mia mente ordisce unisce le tue parole a quelle di Puškin quando descrive nell’Onegin il risveglio di Pietroburgo: Si alza il mercante, passa l’ambulante,il cocchiere si trascina alla fermata,la lattaia dell’Ochta passa veloce con la brocca,frantumando la crosta di neve mattutina.Si è ridestato il piacevole brusio del giorno.Si spalancano le imposte. Dai comignolisalgono colonne azzurre di fumo,
e il fornaio, un tedesco ben curato,con il berretto di cotone,apre e richiude il suo vasistas. Immagini di un inverno duro opposte a quelle solari del mare del sud. Non ti scandalizzerai, entrambi sappiamo che il mondo più che essere piccolo è stretto. un bacio.
ci sono frasi che vorrei citare , ma quella che mi rimane impressa di più è “perchè la sera si fa la conta di ciò che è sopravvissuto al giorno, di ciò che dura” e poi mi piace pensare allo zibibbo che non ho mai visto e al profumo stordente del gelsomino e al gelso appiccicoso e all’aeucalipto dal tronco chiaro e scheggiato e dalle foglie d’argento, e al pane e alle voci.
Qui, da noi , al nord, le voci non si sentono quasi mai, stordisce il silenzio.
Nessun richiamo, nessun canto.
Vorrei essere lì.
si sta in silenzio, sbigottiti
per la traduzione che fai
di sentimenti universali;
si riflette, grati
per la pesca che fai
di sensazioni sopite;
si commenta, emozionati
per l’invito che fai
di abbandoni “apaisants”…
Semmai ci fosse bisogno di un Manifesto
contro la costruzione del ponte sullo Stretto, proporrei le tue 3 “balenaria”
sperando che qualcuno di buona volontà
possa capire…
ovviamente intendevo scrivere “balnearia”…
e giù tutti a ridere per il mio refuso
grande come una balena !
Nel mio, di Nord, il silenzio è un miraggio. Nessuno lo vorrebbe completo, che comunque non esiste; ma almeno inframmezzato da voci e suoni capaci di suggestionare. Mio padre mi dice di quando il suo silenzio notturno era rotto da zoccoli sull’acciottolato, fischiettar di nottambuli, lontane serenate. Ora è più spesso straziato – e non più solo a tratti – da voci sgarbate, autoradio, allarmi, rombi innecessari d’auto e moto.
E vivo in paese.
Anch’io vorrei esser lì, ma per motivi opposti.
(Gretsch)
Torno sempre a leggerti, anche se spesso senza lasciare traccia. È perché spesso mi pare che lasciare un commento sia qasi come rompere l’incanto che la tua scrittura è riuscita a gettare su questo schermo nero.
Penso con una sorta di desiderio, quasi di nostalgia, a questo paese che vai descrivendo, e mi verrebbe voglia di partire – non fosse che so questa bellezza così incantatoria e struggente, ferma e sospesa, esiste qui nelle tue parole molto più che nelle pietre e persone e voci “reali”.
Mi piace che il mio Sud venga qui mescolato ai vostri, e ai vostri Nord, taciti o rumorosi (quello di kresh è addirittura artico e zibellino come noi nemmeno immaginiamo), ma d’altre voci. In questo paesino – ma è come centomila altri – non si dorme mai davvero nel silenzio, e la vita non appartiene mai a uno solo: come le voci, entra in quelle di tutti. E’, ancora, una ricchezza.
Cara madeinfranca, il mio “NO” al Ponte è addirittura doloroso: pensa che (tra l’altro) cancellerebbe proprio questo borgo ex verghiano, e una delle spiagge più belle di Sicilia.
Sarò prosaico..non me ne voglia.
Scrittura suggestiva,immaginifica.
Toglierei qualche parola di troppo.
Non me ne voglia.
I gelsi ad esempio. Che vuol dire venditori di gelsi?
Sono deliberatamente prosaico ma dubito che qualcuno sia disposto a comprare more di gelso.
Bella scrittura comunque.
Saluti.
Quando torno, anche dopo un’assenza brevissima,qui, nel posto dove vivo, cerco e trovo le voci, le inflessioni, le cadenze.
Allora mi sento a casa.
Qui da noi si parla ancora sulle porte, nei filò della sera, la sedia sull’asfalto: le donne in ciabatte, con la vestaglia di casa, leggera.
Il “ma da boooon???” stupito – che acchiappi a volo per strada – testimonia che è stata appena consumata una chiacchiera, che un segreto è entrato in circolo…
Oppure senti le risate, qualche volta un po’ chiocce, qualche volta un po’ grasse, uscire da certe siepi di cinta. Assomigliano alla punta accesa dello zampirone, nel buio.
Vedi,le tue voci danno la voce ad altre, lontane 🙂
ehm, faccio rispettosamente notare che qui da noi si vendono le more di gelso: rosse da macchiarci denti e sorrisi, e piene di cellette succose che non finiscono di scoppiare in bocca. Quando il venditore passa, di solito è il più melodico di tutti, e modula: “ceusa, ceusa megghiu ‘ri frauli….” (gelsi, gelsi più buoni delle fragole)(verissimo, sono molto meglio). Ed è il primo, di solito, a finire la mercanzia. Grazie, comunque.
colfavoredellenebbie, proprio tu sai cosa significa essere al servizio delle voci: le porta la nebbia, le porta l’aria, le porta persino l’esile spina dorsale del caldo. (bella, la punta accesa dello zampirone, picola brace rossa che appartiene alla punteggiatura domestica della notte)
Grazie per il ragguaglio sui gelsi.
gret.
parlavo del silenzio delle voci che qui, non rimbalzano più.
Gli altri rumori ci sono tutti, anche troppo.
ciao
Mi piacerebbe farti ascoltare le voci da quest’altra parte del mare, così vicino, così lontano, quando null’altro mi necessita se non il balconcino blu accarezzato dalle onde…ma è forse questo un segreto di felicità?…
Un saluto dalla compagna del tuo compagno di banco, postando in clandestinità in attesa delle ferie…
a me quelle donne che calano i panieri dai balconi mi mette una tristezza quasi non si poetesse uscire non c’è tempo e si rimane per sempre in Bar(c)A
belle comunque le descrizioni dello Stretto della vita.
Silenzio apparente che perseguiti una solo apparente polifonia, dove sei?
Niente vacanze Donna Brioche? :-))) Buona serata. Trespolo.
molto bello davvero.
a.
io credo che quel che hai scritto meriterebbe d’essere pubblicato punto e basta. ci s’è arravogliata la mia adolescenza in questo tuo affresco. Un bel po’ più a nord, non moltissimo, non troppo in ogni caso da non sentire bene le stesse voci e gli stessi rumori
Mai pensato si vendessero, le more del gelso: qui si sono sempre andate a rubare sugli alberi, quando eran finite le ciliegie e prima di arrivare, in ultima istanza, al sambuco.
fuoridaidenti, sud o nord le voci ci prendono sempre dalla parte del passato, accidenti a loro.
sphera, qui siamo troppo pigri per rubare le more. (ma arrivare, in ultima istanza, al sambuco mi pare geniale)
mode bucolic off
quand’ero migno c’era l’omino che vendeva le more del gelso. aveva un canestro con queste foglione carnose (e mi pare pure pelose ma potrei sbagliare) su cui era adagiato ‘sto spastrocchiamento scuro sugoso. mai comprate. però lui me lo ricordo (come pure l’ovaiolo, il venditore di ricotte e latticini e quello di gamberi “e chist’ pazziavan’ vicin’ e’ scuogli’. pausa, jàmmer’ jàaa!”)
mode bucolic off
un fuoridaidenti con il blog “calma” è grandioso!
E di notte, nel silenzio della notte, probabilmente si leveranno le voci della leggenda di “Cola Pisci”.
Sì, sono voci che mormorano tra le onde, ma così piano che pochi possono sentirle. Come pochi possono sentire il gemito di Colapesce incatenato al fondo e alla fedeltà.