Io la Salerno Reggio non ve la posso spiegare. Perché dove voi vedete un’autostrada, anzi una specie di autostrada, io vedo tutte le Calabrie che conosco e che ho attraversato.
La Calabria di quando andavamo a Bagnara, che è un paese anfibio: mezzo di riva e mezzo di colle, come ce ne sono tanti, che non si capisce se s’arrampicano o scivolano, non si capisce se il movimento è verso le ossa grosse dell’Aspromonte, in alto eppure nascosti, come ci si nasconde solo in Aspromonte,o in basso e verso le villette a pelo d’acqua, coi mattoni forati bene in vista e i pilastri già pronti per la prossima soletta – che abbronzature, in quelle terrazze spudorate, affacciate dentro il mare che, per vendetta, depositava il suo broncio salino dappertutto, e ci ossidava i tubi i metalli e un poco l’anima. La Calabria dei sapituri che ti dicono “no, qui esci e tagli e poi ritorni da lì”, perché la Calabria è fitta di sottopassaggi e vie misteriose che non coincidono mai coi tracciati, le mappe, le intenzioni.
La Calabria di quando dovevamo andare a Tropea e guidavo io, e con mio figlio ci siamo persi per ore e ore in mezzo a un nulla sterminato dove di vivo c’erano solo gli incendi che covavano tra la stoppie, certi insetti preistorici che si stampavano sui finestrini lasciando ali e antenne e cotenne spesse un dito, certi viottoli strani che solo Siri poteva prendere per strade percorribili (ma in Calabria è così: solo chi segue le mappe non può percorrerla, nemmeno capirla da lontano, sapere la cosa fondamentale: dove non puoi andare, cosa non puoi fare). Una Calabria non misurabile, dove non ci sono nemmeno i pali della luce e la notte dev’essere quella materia di pece che era centomila anni fa, quando l’Aspromonte era giovane ma già più vecchio di gran parte della Terra, come la sua acqua canterina e gelida. La Calabria dei paesini dalle consonanti greche, abitati da popoli estinti.
E dove voi vedete gallerie buie, angoli storti, pendenze, ponti sospesi su valli senza fondo io vedo la Simca Mille di mio padre che arranca carica di ottimismo e boom economico, e assapora tutto quell’asfalto e quei chilometri tesi verso il futuro, che allora puntava a Nord, dove c’erano le meraviglie meccaniche e finanziarie e industriali.
Dove voi vedete viadotti pericolosi io vedo una sfida ai venti ma soprattutto all’indole pietrosa di noi calabresi – c’è questa contesa della natura che non si rassegna e dell’uomo che rischia, anche se è calabrese e piuttosto tende a ripararsi, a chiudersi e diventare una pietra, su cui la ruota della Storia può passare ma che non si rompe, lascia solo lividi ben nascosti, per pudore e decoro antico.
Dove voi vedete erbazze che crescono a ciuffi sulla carreggiata o nascondono i cartelli, io vedo l’imperio originario che non si può chetare, quella mansuetudine che spacca il cemento solo con la propria forza di sopravvivenza.
E dove voi vedete cartelli coi fori dei proiettili (se ce ne sono ancora) allora, forse, lì vediamo la stessa cosa, ma io un po’ di più e un po’ peggio, perché lì mi vergogno, perché so chi circola su quei tornanti, e a chi appartengono quei camion che spostano terra, attrezzi, persone. Tutte merci di un’economia sfuggente, invisibile, che è assolutamente perfetta per quel luogo sfuggente, invisibile, non misurabile.
Voi dite Salerno-Reggio e io sorrido perché per voi è uno scandalo, per me un mito. Un mito orribile come Scilla, i Ciclopi o il Vecchio della Montagna, ma un mito fondativo della mia sventurata terra. Voi vedete una strada stramba, che sembra allontanare invece che avvicinare (e in parte è così, per il vecchio paradosso: ciò che guardi e vedi nelle sue esatte proporzioni è lontano da te, ciò che ti avvolge è invisibile), io vedo una spina dorsale di quel corpo dell’Italia che mi avevano insegnato da piccola, e pazienza se è un corpo sbilenco, inadeguato, senza equilibrio: era mio, era nostro, era una promessa.
Io non so se saranno mai chiusi tutti i cantieri: forse non è possibile, dal momento che la Salerno-Reggio è un luogo metafisico e non reale, dove il tempo scorre in un altro modo e le ere geologiche finiscono e ricominciano e non se ne verrà mai a capo.
Io non so se sarà mai finita la Salerno-Reggio, ma mi sembra che, se pure dovesse – nei prossimi duecento anni, non uno di meno – diventare un’autostrada svizzera, io non smetterò mai di vederla com’è, così storta, sbagliata, a picco, cogli occhi socchiusi, omertosa, difficile, interrotta, a strapiombo o infossata, come una cosa viva, una leggenda vivente, come la Calabria che vista dallo Stretto, sapete, sembra un drago azzurro che dorme, e sogna cose di draghi, orribili, meravigliose.
Che meraviglia… mi hai catapultato di nuovo in quei luoghi. Io proseguivo fino a vederla morire, l’autostrada, fino a Reggio. Grazie e comprendo ogni minimo dettaglio da te scolpito
Che nostalgia … grazie
i miti non FINISCONO MAI!……….
Soave Mangino.Capace di toccare corde,riesumare odori,sapori,immagini di una terra irta di contraddizioni,eppure per questo inimitabile.Con una maestria,una ricchezza di sfumature,difficili da assaporare compiutamente per chi non vi ha vissuto.
E finalmente una verita’ assoluta,invano contraddetta da decine di ridicole inaugurazioni.La SA-RC,la carrettiera,non finira’ mai.Nessuno potra’ completare un percorso folle,tra le montagne ostili ,voluto dal Renzi dell’epoca.Il bullo,ante litteram,Mancini,che dispoticamente impose il tracciato attraverso casa.E’ la glorificazione,l’esaltazione della INCOMPIUTEZZA.Clonata in varie forme in tante parti delle tre Calabrie.
Questa tua descrizione non la dimenticherò più, soprattutto quando mi capiterà di percorrerla. Sei geniale! Ciao
Cristina