LA CONGIURA
Il piccione lo sapeva, e lo sapeva il vulcano. Lo sapevano gerani e foglie di salvia. Lo sapevano le scarpe a pois. Lo sapeva il lastrico ortogonale di Torino, lo sapevano i tricolori (Torino ha una quantità spaventosa di tricolori, come se una vittoria alla finale dei Mondiali fosse esplosa nel perimetro cittadino: se Roma è la Capitale burina e pigliatutto, Torino è la Capitale Anziana, pensionata ma mai dimessa, ancora diritta e in esercizio col suo Cavour che, se stai attento, t'attraversa la strada e ti saluta pure).
Lo sapevano, che non si deve chiedere troppo. Ma la Brioscia mica lo sapeva che stava chiedendo una cospirazione all'impossibile: andare a Torino, nel covo della Trebisonda, nel cuore di San Salvario – e per giunta nei giorni libreschi e pleonastici del Salone – a presentare la sua creatura, "Lezioni di tango raccontate da una principiante", le sembrava una cosa normale, che non integrava necessariamente i patti col destino.
E invece.
Il vulcano congiurò da subito: dall'autostrada, alle cinque del mattino, sfoggiava una mantella di neve fresca e un gioiello di fuoco vivo. Una delle bocche s'era spalancata, di notte, e pioveva cenere su tutta la città: la pioggia di cenere è come la mafia, non te ne accorgi nemmeno, senti appena un disagio, un fastidio, un polverìo che diventa un fango scuro e scivoloso sulle suole, copre fittissimo le strade, le ali degli aerei, le piste degli aeroporti, i lenzuoli stesi e l'umore degli angeli. Si può morire di cenere, senza saperlo.
Ma all'aeroporto lo sapevano, e chiusero i cancelli in faccia alla Brioscia speranzosa, che aveva passato tutta la sua breve nottata a rimpicciolire i bagagli e misurare le boccette di bagnoschiuma. Infine, nella borsa di Brioscia Poppins stavano cinque abitini da tango, tre paia di scarpe, taccuini ripieni, saponette, fazzolettini bagnati, breviari, lampade pieghevoli, scrivanie di noce, polli arrosto, colbacchi di pelo, cartine del Piemonte, corni rossi da mezzo.
Ora, chi abita sullo Stretto ha due opzioni per partire e cambiare di sponda: prendere la nave di Ulisse, quando passa di lì, oppure indovinare l'orario di una delle Caronti. Ulisse era in ritardo, e così la Brioscia tentò di prendere la Caronte. Ma la congiura congiurava ancora: arrivato il suo turno, le chiusero il ponte di carico in faccia.
La Brioscianon aveva altra scelta (e non per nulla è la nipote di zia Mariella): evocare la prefica tragediatora che è in lei e supplicare i rudi marinai, come se fosse sul palcoscenico di Siracusa. Greci, fenici, arabi e normanni: nessuno resiste ai temi della lamentazione eschilea, se ben condotti. Fecero salire la Brioscia di sguincio, e lei – dopo aver baciato il marinaio più rude – potè involarsi verso la Capitale Anziana, non senza altri incontri degni di nota.
LA BISNONNA
Avete presente una bisnonna ottimista e di sinistra? Ecco, era proprio accanto alla Brioscia, che era seduta nel suo solito sedile di spine. Piccola, coi capelli bianchi in piega meticolosa, le gambe traditore distese (e la sedia a rotelle ad aspettarla allo scalo), la bisnonna ammirava Napolitano come i ragazzi i Tokyo Hotel, parlava di Garibaldi come di uno scapestrato coetaneo (e forse era pure vero, visto che a Roma l'aspettavano cinque generazioni che lei s'accingeva a benedire, laica matriarca e risorgimentale). Disse alla Broscia, parlando pasionaria delle elezioni imminenti: speriamo, stavolta speriamo. Solo una ragazza di cent'anni poteva vedere con tanta chiarezza il futuro prossimo, poteva avere ancora naso per la speranza.
LA NONNA DI SANDRINE BONNAIRE
Squisita tutta, immersa in una bellezza ancora imperativa pure se trascorsa, la nonna di Sandrine Bonnaire camminava diritta verso l'imbarco. Aveva un abito francese, una borsa francese, una bocca francese (ma sandali italiani). E il profumo più buono del mondo: cominciava come un Botticelli, e poi diventava un Balthus. Profondeva fiori e frutti, e poi ti portava in un qualche buio parlante dal quale non potevi staccarti. Un profumo come quello delle gardenie: illimitato, oscuro e rimescolatore.
Per fortuna, la nonna di Sandrine Bonnaire era seduta proprio davanti alla Brioscia, che passò tutto il viaggio a sniffarla (ovviamente non si trattenne e le domandò cosa fosse, quella meraviglia, ricevendone il dono di una parola meravigliosa: "Womanity")(secondo Thierry Mugler, nella womanità ci sono sentori di latte, di fico, di legno, persino di caviale: è la nota animale, profonda, che scoppia subito dopo le ninfee da impressionisti, l'illusione fiorita)(mica scemo, questo Mugler).
LA TREBISONDA
La Trebisondanon è tecnicamente una libreria. E' piuttosto un rifugio per libri e lettori, un luogo di bonaccia e scambio, un porto senza flutti ma con tutte le storie. I libri sono scelti uno a uno, sono piuttosto coinquilini e fratelli, compagni di strada e pensionanti. La libraia, infatti, la molto sofonisba Malvina, è una sovrintendente e una cuoca, una giardiniera e una comandantessa. Salpa tutte le mattine, sulla sua nave dalle grandi vetrate da cui si vedono coccodrilli, volumi alati, grappoli di lampade e che resta accesa come un bastimento fino a notte fonda galleggiando nel bacino di San Salvario.
Qualche volta però la libreria sembra una rupe, abitata da un bosco di libri, o una voliera d'idee sulla cima d'una collina: ed è per questo, ne siamo certi, che i piccioni continuano a entrarci.
IL PICCIONE
Ero l’ombra del beccofrusone ucciso
dal falso azzurro nel vetro:
ero il fumo denso di peli bruciati – e io
vivevo, volavo, nel cielo riflesso.
E dall’interno, poi, avrei duplicato
me stesso…
(Vladimir Nabokov, “Fuoco pallido”)
Il piccione s'era già fatto un giro al Salone del libro, e lo aveva trovato – come ogni altro essere vivente – del tutto inospitale. Così aveva deciso di cercarsi altri luoghi, e aveva trovato nel suo giro la Trebisonda, dove proprio quel pomeriggio s'erano dati appuntamento la Brioscia, i tangueri, il tango e un sacco di amici. Il piccione – o era un beccofrusone tentato dall’illusione dell’azzurro, come noi e come mastro Nabokov, che lo cantò nei distici eroici di “Fuoco pallido”? – con la riservatezza dei pennuti sabaudi, non ritenne di presentarsi, e si ritirò a razzolare in una vetrina. Fu forse l'unico dei presenti a non scattare una foto col telefonino, e di questo gli siamo ancora grati.
Quando cercò di uscire, però, il suo (il nostro) destino beccofrusonico lo prese: la vetrata lo ingannò, gli spezzò il volo e lì la giornata tornò in bilico, come al mattino sui vortici di cenere, in balìa delle potenze ultraumane che cospirano, e dell’ostinazione delle nostre illusioni.
S’alzarono in tanti, gli imposero le mani e il piccione si risanò di colpo – perché le librerie sono luoghi magici frequentati da cerusici e condottieri e guaritori – zampettò fuori colmo di bipede dignità e poi si lanciò in un volo nitido.
Gli dei erano con noi. Il beccofrusone pure.
IL TANGO
Che il tango mica ha bisogno di precauzioni: si prende i luoghi come si prende le persone. Lo hanno portato, nella sua culla di canapi e satin, di pizzi macramè e carta di giornale, i tangueri di Desdelalma: Nando e Fiore, Marco e Monica hanno battezzato il parquet ballando sospiri di bandoneon e frecce di violino, traspiè indiavolati che mordevano i garretti e tanghi telepatici tutti intenzione e sguardo.
Anche la Brioscia, sventurata, ballò: ma era a sua insaputa. Un tango preterintenzionale di cui ancora chiede venia ai presenti e al dio Gardel.
EFFE
Herzog Effe non è tecnicamente una persona, ma un'icona. Un blogger spretato ma mai scomunicato, uno scrittore eretico e retroverso i cui continenti di parole sono ancora visibili in tutte le carte nautiche del web. Appartato e sfuggente come una Greta Garbo, saggio e indecifrabile come l'oracolo di Delfi, provocatore come un Andrè Breton ma più sabaudo, ha portato alla Trebisonda – dove ormai confluivano piccioni, vulcani, bisnonne e milongueri – il suo tocco fescennino-situazionista, tenendo una prolusione dadaista ma savoiarda, omerica ma gechegè. Infine, ha mostrato l'autore-tipo, che dopo l'alpino-tipo aveva invaso in quei giorni assalonati le strade di Torino: un pallone gonfiato. Lo ha giustiziato con un secco colpo di spillo: il web che si vendica di tutta la cattiva letteratura che disbosca l'Amazzonia e ci fracassa i cabbasisi. Tiè.
LADY ALESSANDRA
Solo lei – in arte Alessandra Terni – poteva leggere il libercolo della Brioscia come fosse Beckett, o Sofocle, e farlo credere agli altri. Solo lei poteva dare corpo e volume e vita alle parole, che hanno cominciato a muoversi e zampettare per tutta la libreria, e la gente le prendeva e le faceva volare via, come col piccione, come con i beccofrusoni, e in breve San Salvario è stato pieno di creature alate, tutte figlie sue, che facevano un rumore delizioso, come una tempesta di passeri.
LA HOME PAGE
Diciamolo: non era una presentazione di libro, ma una home page di facebook in un giorno feriale. E la Brioscia, estasiata, si aggirava a cliccare "mi piace", "mi piace", "mi piace". E quanto le piacevano, quegli avatar diventati abbracci, quelle parole diventate voce, quei frammenti che si componevano: lo sguardo da lago di montagna di Sabrina, la sfrontata timidezza di Egle, il nocciolo siciliano dentro la sabaudezza di Gabriella, l’ironia nocciola di Loka (che poi avrebbe fondato, a tavola, un incomprensibile comitato anti-Occhetto, col mio editore stalinista non pentito), lo sguardo di Carlo B. che vede tutto, anche l’invisibile, e lo sguardo di Carlo M. che aggiunge invisibile a tutte le cose. E che emozione Giorgio, il più torinese dei torinesi, giornalista totale, memoria vivente e camminante della città, podista dei ricordi metropolitani, cicerone alla rovescia, che mostra parmigiani e rampe di lancio delle auto e soprattutto le storie nascoste sotto le storie. E Gloria, la lettrice soave carica di biscotti da spezzare e dividere come sorrisi. E Mariusso Pappù, artista multiforme e arconte di San Salvario. E l'ardimentoso Renato, nipote onorario delle zie calabre. E Augusto, che è scappato a inseguire la politica, e ha fatto bene, perché la politica non si può lasciare sola nemmeno per un momento (guardate quello che accade in un Parlamento, sennò). E, poiché ogni tanto fb fa il suo dovere, c'era anche il mio antico compagno di scuola, Enzo, con cui dividemmo una gita scolastica nell’Italia che s’apprestava a diventare atroce, ma noi eravamo così pieni di futuro da non accorgercene.
Che emozione diventare tutti umani, restare umani perché lo schermo non è un modo per nascondersi ma per rivelarsi meglio, nel 5D dell'anima. E quando tutto quello che sospetti di una persona, dai suoi aggettivi ai suoi occhi si compone in una folgorante u(ma)nità allora è un piccolo miracolo. Ce ne furono, quella sera, di miracoli. Parola di piccione.
IL SALONE DEL LIBRO
La Brioscia non era preparata al gigantismo lingottesco, ma la parte di farcitrice calabra che è in lei s'emozionava solo al pensarlo, un luogo dove ci sono TUTTI i libri. Un luogo mitologico, come possono essere le cucine del Paradiso, le pasticcerie torinesi, alcuni letti.
Anzitutto il Lingotto: uno di quei luoghi ridestinati, perché la storia è fatta di cambiamenti d'uso, d'intenzioni e ripensamenti che plasmano le terre e gli edifici. Degli operai non resta nulla, in apparenza, né delle storie d'ingiustizia e dolore di tutte le grandi fabbriche, gli immensi luoghi concentrazionari del lavoro, perché non esiste il capitalismo buono, e il suo carburante sono pur sempre il sudore e la fatica e la vita che si consuma un tanto al giorno, mensa compresa. Dei rombi delle auto resta l'eco, invece, nelle rampe maestose che conducono all'autodromo sul tetto: da lì le automobili volavano in tutta l'Italia e fuori, uccelli di lamiera messaggeri del boom economico.
Ora volano i libri, in quegli spazi. E più dei libri il circo e il carrozzone dei libri: il suo carico di ufficistampa, editores, sensali e paraninfi. I suoi mondadoroni, i suoi einauditi. I suoi ValerioMassimoManfredi e IsabellaBossiFedrigotti, i suoi autori falsi venduti in brossura, i suoi non-autori spacciati negli angoli alle scolaresche.
Ma c'è anche l'incanto, dei libri: l'edizione oscura della "Visita del capitano Stormfield in Paradiso" di Mark Twain. "Il libro delle domande" di Neruda, che la Brioscia era convinta non esistesse, era convinta di avere immaginato in una notte di tregenda al fianco d'un fidanzato falso in una vita malcapitata. I libri tanti, piccoli, ardimentosi che ti vengono a tirare per la giacchetta. I libri incubati dai giovani editori, i libri che si difendono con le unghie e con i denti, perché nascere libro nell'Italia di Berlusconi e Bondi è peggio che nascere donna a Kabul o nero nell'Alabama del 1930. I libri necessari, perché sono la nostra trincea, uno dei modi per restare umani, e anche di più: divinamente umani.
Il Salone è un inferno con dentro un paradiso con dentro un inferno con dentro un paradiso. Gli amici e le luci da capannone per galline ovaiole. Le idee che allargano le ali e le rilegature del nulla. Lo spreco e la sapienza. Il caos e il caos.
IL PROFESSORE
Quando gli chiesero di firmare la ricevuta della carta di credito e gli porsero una penna, si sdegnò: "Io porto sempre una penna. E lo dico pure ai miei studenti: un uomo deve portare sempre con sé la penna. E' quello che ci distingue dai sudditi, la penna. La nostra spada".
L'BIRICHIN
Perché non ne possiamo più della cucina troppo intelligente. Perché quella è roba da milanesi. Perché la cucina è accoglienza e condivisione e attenzione e piacere. Perché le ricette antiche non sono vecchie ma solo sapienti. Perché si può cercare sempre un asparago nell'uovo. Perché le mamme sono sacerdotesse, e solo loro sanno cose misteriose come scegliere le verdure più buone o chiudere con un "plin" esatto gli agnolotti o conoscere il preciso punto di cottura del riso. Perché lo chef, invece, non è un sacerdote ma solo un pilota. Perché la fassona è una prova dell'esistenza di alcuni dei, e trattarla col coltello è gesto di venerazione e rispetto. Perché il bunet è un succedaneo del latte materno: ti deve consolare e nutrire.
Tutte queste cose Nicola Batavia, che dirige L'Birichin come un capitano di pescherecci coraggiosi, le sa. E per questo la Brioscia tornerà a mangiare lì.
TORINO
Gran Torino. Sintattica ma di cuore. Capitale ma militante. Tricolore ma con gusto. Francese ma piemontese. Operaia ma di classe. Fassina ma di sinistra.
Meravigliosa da mangiare: la Brioscia è scesa personalmente nelle cantine di EatItaly dove stanno a riflettere per anni i prosciutti e i parmigiani, e i loro pensieri cagliano l'aria, così nutriente che ti sazi solo a respirarla. E ci sono botti parlanti, e mucche meccaniche, e allevamenti di biscotti e campi interi seminati a pasta di semola di grano duro.
Il suo fiume, a ben guardare, è di cioccolata, e le panchine di wafer. E le nuvole, le nuvole sono panna fresca.
E poi è una città tropicale ma precisa, dove il monsone passa sempre alle sei in punto e fioriscono mazzi di biciclette, quando è stagione.
Tornando al Sud da quei tropici sabaudi, la Brioscia dovette indossare di nuovo il golfino, e le calze pesanti, che evidentemente l'Italia sta cambiando di posto, e tutto si capovolge e si scambia, chessò, come una Moratti con un Pisapia.
Post molto bello!
E che meraviglia una bisnonna "ottimista e di sinistra"!
Dalla ne sarebbe felice.
Il tango ti fa bene!
Pensavo proprio a lui, ovviamente.
Il tango fa bene a tutti: è terapia dell'anima e del corpo, che ne è la parte più sensibile.
e il nostro marius Cartografo? Lui c'era i/ non c'era? non l'ho trovato tra le pieghe e l'inchiostro.
eppure lui al San Salvario è di casa!
peccato brioches che tu sia andata a nord ovest
a nord est, mai eh!!
avvisami nel caso che
;))
bri
Bella Bri, Mariusso Pappù è il nostro cartografo magno, faraone e signore di San Salvario, patriarca ed esarca, col quale poi ho cenato fianco a fianco, circondati da angeli e case.
(nordeste… chissà…)
Eh, ma se le notizie rotolassero anche da queste parti, qualcosa si sarebbe potuto fare… prendere un treno, una bicimongolfieraavela….
🙂