Zia Mariella è sbarcata alle otto in punto. E’ scesa dalla nave che si chiama “Caronte” (forse sfugge, a quelli che non sono meridionali meridionali, l’umorismo nero e il crudo realismo, l’inventiva metafisica e la beffa sofista che ci volevano per chiamare “Caronte” le navi che fanno la spola tra le sponde, impegnate in ritorni senza fine, che è come non partire mai, non morire mai)(ma tanto d’inferni ce n’è fino che si vuole, qui, e d’immortalità).
Aveva una sporta con dieci uova della gallina piccola, la borsetta elegante, la cappottina estiva, le calze nere velate, le scarpe comode però. Aveva un bollettino dell’Ici già compilato, un rosario, cento volantini elettorali della sinistra che non è più quella di una volta (domenica 27 ci sono le comunali: la zia partecipa per antico amore e prova di devozione, e fa di tutto, l’attacchina selvaggia, la capoclaque, l’addetta alla mensa, la leva-malocchio ufficiale, la fischiatrice ai comizi degli avversari), alcuni amuleti, la schedina del 1964 mai giocata dal nonno (gliela trovarono nel taschino, dopo l’infarto), spiccioli (anche monete da cento e duecento lire, per nostalgia), un rossetto nuovo, un corno rosso, un’immagine di Padre Pio.
Veniva a sbrigare faccende nell’isola, cose di dentisti e bollette che richiedevano di passare il mare, questo mare domestico che portiamo imbrigliato nel porto piccolo, nell’affaccio del cortile, nello spicchio della finestra del bagno, nell’orizzonte vago dove situiamo – noi di quella sponda di là – gli isolani, i tramonti, i turcomanni, l’avvenire che, si sa, è capovolto e sta più a sud di noi.
La zia usa il mare, non si sogna nemmeno d’immaginarlo: è come la strada, lo spartitraffico, l’edicola, il lampione. Il mare necessario che – lei non lo sa e non lo sospetta – fa da confine all’anima, la esercita quotidianamente, la provoca, le sciorina lo spettacolo del meraviglioso e del fantastico che, ogni giorno, ci tengono vivi e allungano la nostra giovinezza.
Meraviglioso, appunto. Tanto che io – giunta di supporto logistico, parentale e metafisico alla trasferta, ché non si dica mai che qualcuno di noi viaggia senza la famiglia attorno – le ho detto, guardando l’azzurro metallico (maggio quest’anno è un aprile con qualcosa di novembre), la fronte caparbia delle nuvole basse e la qualità terrosa dello Stretto di oggi: “Zia, lo sai che stanno facendo già le elezioni per le nuove sette meraviglie del mondo? Lo Stretto non ci starebbe bene?”.
“Altre sette?” s’è impensierita la zia.
(continua…)
C’è una cosa che solo Caronte sa, accidenti: se un braccio di mare necessario (come quello dello Stretto, e non solo), oltre a fare da confine all’anima, unisca o separi le opposte sponde della stessa…
ah, Caronte…
è il traghettatore che uso sempre quando attraverso lo stretto, forse spero sempre di vedere luccicare nel buio i suoi occhi di bragia.
fra meno di un mese passo di lì, chissà che questa volta non ci riesca!
certo che sono magnifiche/inquietanti queste donne calabresi, io ne ho sposato una, devo preoccuparmi?
Raccontato da te lo Stretto sembra dilatarsi all’infinito
meno male che non costruiscono il ponte! si perderebbero tutte letue storie che hanno bisogno di acqua e spazio e tempo. dalle tue parti succedono sempre fatti interessanti e le persone sono fatte di aria e vento, qui, da me, nel profondo nordest c’è calma piatta.
o forse è il tuo sguardo ad essere magico
manca il mare, qui
mi sa che un tuffo dalle tue parti mi farebbe bene
ciao
🙂
è sempre una questione di distanze, è la distanza che permette il racconto.
Per questo possiamo raccontare di tutto, ma di noi quasi mai
(dico: per raccontare noi, dobbiamo raccontare d’altro. Questa è la distanza, o lo Stretto necessario)
non so effe.
forse se parli di racconti, sì, ma nel blog c’è molto di noi, credo.
certo, si fa quel che si può per non essere completamente esposti.
e forse la scrittura ne risente.
per essere liberi dovremmo nasconderci, ma dovremmo esserne capaci.
Caronte, sì, Caronte. Con le navi che parlano ancora di altre acque, di fiordi lontani, dell’acqua che scava la terra e vi si insinua.
Ché solo con Caronte sembra di tornare a casa, la Bluvia la lasciamo ad altri, è sofferenza e liberazione il passaggio da una sponda all’opposta.
Qualunque essa sia.
Chissà che direbbe poi la zia Mariella, di questi inglesi che dicono che le meraviglie del mondo sono venticinque.
Che non sanno contare, magari.
Per me, isolano e costiero, il mare è sempre stato un elemento scontato; impensabile non poterlo scorgere da qualche dosso, in fondo allo spiraglio tra due palazzi; ha marcato a vita anche le mie facoltà di orientamento, giacchè ha semplificato lo spazio, sottraendogli ben 180°.
Ma il mare dello stretto l’ho sempre sentito diverso, quasi che abbia qualcosa di più e qualcosa di meno; l’andirivieni di cose e umanità varia, quella che transita col pensiero ad altre mete, e lancia solo distratte occhiate alle città-porto ed alla sua gente. Sono certo che, se abitassi lì, mi si anniderebbe dentro un po’ di angoscia.. ma sono solo correnti dalle profondità del mare di dentro.. devo avere un qualche Caronte in servizio clandestino tra l’anima e gli occhi..
Cara StefaniadeBabel, ci sono ponti che dividono e bracci di mare che uniscono. Ma non sempre, non tutte le volte. Nello Stretto è così.
farsergio, non potevi fare scelta migliore. Una calabrese sa tutto, ma sa anche quando non dirlo, non darlo a vedere. (davvero passerai di qui?)
giorgi cara, lo Stretto non si può nemmeno misurare: cambia dimensioni ogni giorno.
verdemare, il mare secondo me è necessario ovunque. dovrebbero portarlo, dove non c’è. (e poi, per chi si chiama verdemare e ha un avatar come il tuo, il mare è indispensabile).
Herr, siamo Stretti dal bisogno di dire altro per dire lo stesso, o dire lo stesso per dire altro. Ma la distanza, ah la distanza: lo Stretto è un esercizio di distanza ingannevole, continuamente contraddetta.
riccio, tu lo sai quali metamorfosi induce, quel passaggio.
Inoltre, gli inglesi sono inglesi, e pur circondati dal mare non ci capiscono un tubo, di meraviglia. Infatti, la loro virtù nazionale, della quale sono stupidamente fieri, mi pare sia proprio l’imperturbabilità… ah, infelice quel mondo che non sa turbarsi…
Gaetango, bello il tuo Caronte intimo, o forse lo abbiamo tutti, a condurre i viaggi segreti tra noi e noi. NOn credo che lo Stretto ti darebbe angoscia: è consolazione, anzi, e ripara alle ferite della città, del giorno, dell’isola.
Se tu stessi qui avresti semplicemente un altro confine, un’altra forma dell’anima.
bravi! bel blog….
simpatica zia 🙂